“In pace i figli seppelliscono i padri, mentre in guerra sono i padri a seppellire i figli”. Nella straordinaria potenza narrativa di questo frammento di Erodoto, si racchiude il dramma della guerra, entrato ormai stabilmente nelle nostre quotidianità, come un tragico ripetersi che affonda, da sempre, l’umanità in un oceano di dolore.
Ma la guerra che viviamo non è più quella conosciuta dai nostri padri. Il conflitto sta mutando la sua natura profonda. Non più scontro militare che punta alla conquista di risorse e di posizioni strategiche o di un nuovo “Lebensraum” (spazio vitale); che mira a occupare la terra del vinto per depredarla o che impone diverse forme di autorità e di governo, uccidendo e distruggendo, senza però oltrepassare alcuni limiti ritenuti invalicabili. Adesso sembra che i conflitti abbiano superato e dimenticato “l’arte della guerra” e le sue declinazioni di religione, di espansione economica e di potere territoriale. Ciò a cui assistiamo, sempre più sgomenti, è quindi una nuova “delenda Chartago”, nella quale il nemico non va vinto, bensì cancellato e annientato definitivamente. Non deve rimanere più nulla di lui e della sua storia, che va riscritta e resa funzionale solo alla memoria del vincitore.
Il mito eterno di Troia, che può solo essere distrutta e poi distrutta ancora e ancora per lasciare la parola ultima solo alle rovine, si ripete con cadenza monotona e spaventosa, senza che da quel mito le società abbiano imparato alcunché. Già Hitler, con il furore distruttivo della “guerra totale”, impone di non concedere sopravvivenza alcuna al nemico battuto, umiliato e sottomesso. Solo il suo annientamento assoluto diventa l’obiettivo del conflitto per la sopravvivenza, come dimostra la distruzione dell’ebraismo europeo in quanto nemico irriducibile del “superuomo” ariano. L’ebreo non va combattuto, ma distrutto fisicamente e polverizzato per sempre. Va insomma cancellato dalla storia.
In quest’ottica, la guerra non riesce a produrre pace, ma solo tregue fittizie nelle quali si annidano i motivi per riprendere la conflittualità e l’innesco di altri scontenti e di altre pretese. Così va letto, ad esempio, il periodo corrente fra le due guerre mondiali nel Novecento: una lunga tregua che porta in sé i germi di nuove infezioni mortali. Il primo conflitto mondiale ha creato infatti le condizioni per l’avvento del fascismo, del nazismo e dello stalinismo e con esse anche le premesse per la seconda guerra mondiale. Poi la meccanica della distruzione totale si è trasformata nella deterrenza nucleare, laboratorio di una nuova “morale”, quella cioè del raggiungimento dello scopo essenziale della guerra, senza doverlo perseguire con l’esercizio della forza militare, nella consapevolezza che la sola minaccia può risultare sufficiente perché evoca la distruzione totale di aggrediti ed aggressori. È la “guerra fredda”, condizione coltivata per decenni in Europa nell’erronea convinzione di essere sicuri per l’eternità sotto l’ombrello nucleare statunitense e nell’altrettanto sbagliata certezza dell’impossibilità di una guerra convenzionale sul suolo continentale.
Oggi però, gli scenari del mondo sono cambiati radicalmente, rimettendo al centro del mirino strategico l’obiettivo dell’annientamento totale e definitivo dell’Altro
Da un lato, la guerra in Ucraina ha messo in chiaro il sogno del neoimperialismo zarista di Putin che, guardando al passato, non sembra però capace di comprendere il mutato contesto del presente, ostinandosi in una guerra di conquista totale che potrebbe innescare processi a catena molto più pericolosi. Dall’altro, la “clownerie” sbruffona, arrogante ed autoritaria eretta a sistema di governo nel più possente colosso occidentale, immagina ancora di poter dettare l’agenda del pianeta a suo piacimento e richiama la possibilità di un uso definitivo della forza per conquistare “nuove” terre come quelle groenlandesi, ricordandoci così più i vaneggiamenti del dottor Stranamore, che non la realtà delle dottrine politiche.
Di fronte a tutto questo, allora non pare più sufficiente affidarsi al pacifismo a buon mercato di certe retoriche prezzolate, né, tanto meno, alle vane speranze di un isolazionismo salvifico, quanto egoista ed inutile. Le parole sono oggi insufficienti e fermare la perversione di un meccanismo che mira, sotterraneamente, ad una soluzione drastica e definitiva dei problemi geopolitici, mentre gli auspici, i contatti e le diplomazie perdono terreno quotidianamente, rivelando tutta la loro fragilità, esposta anche alle bizze caratteriali di qualche leader cotonato ed improbabile.
Mai come adesso, dalla fine del secondo conflitto mondiale e dalla crisi dei missili di Cuba, siamo nell’anticamera della deflagrazione bellica, dove tutti si affannano a dichiararsi ostili alla guerra e così facendo la preparano nel segreto delle sovrapposizioni degli interessi nazionali. Questo clima, anch’esso totalizzante come la guerra che prefigura, ci chiama all’assunzione di nuove – e per molti versi inedite – responsabilità, quelle cioè dell’abbandono degli sterili confini dei rispettivi nazionalismi, per costruire un’unità europea, già auspicata dai padri fondatori dell’Unione, che è forza e quindi salvezza di tutti.
Non farlo, emarginerebbe ancor più, sullo scacchiere internazionale, il vecchio continente, rendendolo periferico e residuale e disvelandone così una debolezza sostanziale, preludio di uno sgretolamento inglorioso e di una decadenza irreversibile.