Una pagina di storia poco conosciuta riaffiora da chi pratica gli archivi della memoria nel tempo degli anniversari, non sempre onorevoli, non sempre onorati. Il 12 dicembre cadeva l’anniversario – 55 anni fa – della strage di piazza Fontana (17 morti, 80 feriti). Dopo depistaggi nelle indagini, la matrice fascista di quell’ordigno esploso nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura è stata siglata nel 2005 dalla corte di Cassazione. Sempre a Milano, andando a ritroso nei tempi, un mese di dicembre (il 16, del 1944) vide l’ultima apparizione pubblica di Benito Mussolini. Giusto 80 anni fa il fondatore e capo del fascismo italiano, tenne un discorso al “Lirico”. E a ben vedere si intravedono legami con l’attualità.
Nebbia, freddo e strade secondarie. Sono questi i compagni di viaggio di quelle automobili che, partite da Villa Feltrinelli a Gargnano, si dirigono verso Milano, nella prima mattina del 16 dicembre 1944. Esattamente ottant’anni fa. A bordo, Benito Mussolini e alcuni suoi collaboratori.
Ormai da un mese l’offensiva angloamericana sul fronte italiano è ferma, per volontà del gen. Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate nel settore meridionale e i cannoni tacciono su tutta la “Linea Gotica”, che dista oltre 300 chilometri dal percorso di quelle automobili.
Alle 10.40, il piccolo corteo giunge in città. Milano è piegata dalle bombe. Con lo scoppio della guerra, gli Alleati ritengono strategica la città e la colpiscono con una frequenza impressionante. Fino al 1943 l’obiettivo è la popolazione civile ed il terrore, poi sono le fabbriche ed i centri di produzione bellica per i tedeschi a entrare nel mirino dell’aviazione americana di giorno e della R.A.F. inglese di notte. Nel 1944 le incursioni sono almeno a cadenza mensile ed il 20 ottobre, 342 bombe cadono nel quartiere popolare di Gorla, colpendo una scuola: 184 bambini morti, insieme a 14 insegnanti e 4 bidelli. Un massacro.
Mussolini arriva quindi in una città che sta pagando un prezzo altissimo alla “guerra del duce” e l’accoglienza, al di là dei fascisti, dei fanatici e dei curiosi, non è certamente quella delle adunate oceaniche del Ventennio.
Milano è però un simbolo per il fascismo, che qui è nato il 23 marzo 1919 in piazza san Sepolcro. Proprio questo è il legame nostalgico che anima Mussolini quando sceglie la sede per la sua più importante apparizione pubblica dopo la caduta del regime. L’appuntamento è al teatro “Lirico”. In realtà è una soluzione di ripiego, posto che l’idea iniziale è quella di usare il teatro della “Scala”, ma le bombe alleate l’hanno resa inagibile e quindi l’opzione per l’altro grande teatro milanese diventa obbligata. Il “Lirico” è stracolmo ed anche le vie circostanti. Si calcola una presenza di circa 3.000 persone.
Nelle prime file della platea ci sono quasi tutti: Renato Ricci, comandante della Guardia Nazionale Repubblicana (G.N.R.); il maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani; Alessandro Pavolini, segretario del Partito; Guido Buffarini Guidi, ministro degli Interni della R.S.I. e Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e poi gerarchi minori e fascisti “duri e puri”, pronti a scomparire davanti al crollo finale.
Quando il duce entra in teatro, un’esplosione di entusiasmo lo accoglie. Mussolini non parla in pubblico dal luglio 1943, ovvero più di un anno prima, un tempo relativamente breve, nel quale però tutto è cambiato. Dal palco, ornato di fiori, egli prova ancora a dardeggiare lo sguardo magnetico sulla folla per dominarla e conquistarla, ma sono ormai gli occhi spenti di un vecchio disilluso e sconfitto.
“Camerati, cari camerati milanesi! Rinuncio ad ogni preambolo ed entro subito nel vivo della materia del mio discorso…”. L’intervento prende così avvio, interrogando retoricamente il pubblico sulle responsabilità del tradimento, ma non c’è più la tronfia sicurezza degli anni Trenta; è scomparsa la retorica dell’impero e delle leggi razziali; non è rimasto niente degli arroganti slogan del regime e “delle decisioni irrevocabili”. Niente. Dopo le più recenti traversie e le imposizioni di Hitler, il retore della “grandezza italica” è adesso un individuo travolto dalla storia, malato, sfiduciato e senza orizzonti.
Ciò non toglie però che il discorso in sé abbia tratti stupefacenti.
Dopo aver individuato nel re e in Badoglio i responsabili della resa e dopo aver richiamato l’adesione italiana al “Tripartito” con Germania e Giappone, il duce rivendica il ruolo del fascismo: “[…] Chiamandoci ancora e sempre fascisti e consacrandoci alla causa del fascismo, come dal 1919 ad oggi abbiamo fatto e continueremo a fare […]” e ribadisce il rifiuto della forma monarchica dello Stato e l’opzione repubblicana, richiamandosi alle origini stesse del movimento.
Poi, Mussolini, inaspettatamente, va anche oltre. Sottolinea la natura “sociale” della repubblica; si rifà alle indicazioni del “manifesto di Verona” e dichiara di posporre una nuova Costituente a conclusione della guerra. Nel contempo apre all’apporto di altre forze politiche: “[…] A un dato momento dell’evoluzione storica italiana, può essere feconda di risultati […] la presenza di altri gruppi che esercitino il diritto di controllo e di responsabile critica sugli atti della pubblica amministrazione …” ed evidenzia anche un embrione di europeismo, quando afferma che: “la costituzione di una comunità europea è auspicabile e forse anche possibile” e ancora: “Nella comunità europea, ogni nazione dovrebbe entrare come un’entità ben definita, onde evitare che la comunità stessa naufraghi nell’internazionalismo.”
A una lettura anche superficiale non può sfuggire il parallelo con certe dichiarazioni attuali sull’Europa, a testimonianza di un legame storico ed ideologico tutt’altro che interrotto. Il discorso sviluppa quindi il tema della socializzazione fascista; affronta l’analisi della progressiva marginalizzazione dell’impero inglese e dei rischi dell’espansione comunista nel vecchio continente, per ritornare, infine, al fascino del dialogo diretto con l’uditorio, che risponde entusiasta alle domande retoriche del duce. Un plauso alla resistenza tedesca e nipponica, l’auspicio dell’immediato arrivo delle “armi segrete”; l’appello alla difesa ultima della valle del Po’ e l’assicurazione che il fascismo non perirà mai. Sono questi i passaggi conclusivi del discorso che, ancor oggi, vengono citati da qualcuno a testimonianza di un legame mai spezzato fra allora ed oggi. Mussolini, in proposito, dichiara dal palco: “L’impresa di cancellarne i simboli esteriori del fascismo fu facile. Quella di sopprimerne l’idea, impossibile!”
Qui la folla grida più volte “Mai!” e così il discorso arriva alla fine con un generico richiamo alla vittoria finale e con le ovazioni della platea. Questa è l’ultima presenza pubblica del duce che lascia il teatro “Lirico” fra applausi e nostalgie dell’idea fascista, irrimediabilmente sconfitta dalla storia ed altrettanto ancora pronta a risorgere in un presente incerto e difficile.
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