Tra le “storie dei Giusti”, di coloro cioè che durante la seconda guerra mondiale si prodigarono per salvare gli ebrei dallo sterminio della Shoah c’è una vicenda umana, sconosciuta ai più. Riguarda un frate cappuccino, originario dalla val di Non, al secolo Giacomo Federico Agosti (1886-1967), in religione padre Gianantonio da Romallo. La sua opera è menzionata nel volume di G. Barbareschi “Ribelli per amore – 1943/1945”, edito nel 1976. Ma ci racconta di più Renzo Fracalossi.
Il 4 luglio 1886 nasce a Romallo, in alta Val di Non, il figlio di Giacomo Agosti e di Cattarina Bertolini. Lo battezzano con due nomi, come si usava allora, in onore dei genitori del padre e della madre. A quel neonato viene così imposto il nome di Giacomo Federico.
Fin da ragazzo egli dimostra di avere un animo buono e volto al bene. È docile, generoso, ricco di serenità e ben voluto da tutti. Nello scorrere degli anni, Giacomo avverte sempre più la profondità di una “chiamata” che, in breve, lo conduce al noviziato nell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, uno dei tre Ordini mendicanti che costituiscono la “famiglia francescana”.
Nel tempo dell’attesa che separa il novizio dall’ordinazione sacerdotale, Giacomo si muove fra Roma e Cremona per motivi di studio e di obbedienza e, dopo la consacrazione a Dio, prende il nome di Gianantonio.
Giunge quasi subito a Milano dove, ben presto, per le sue innumerevoli doti ed un innato senso della carità, assume il prestigioso incarico di “Penitenziere per le lingue estere del Duomo di Milano”, ovvero Penitenziere maggiore con compiti di servizio alle confessioni e di coordinamento dei Padri confessori del Duomo meneghino, la più grande chiesa d’Italia.
Sono anni difficili. Il Paese, dopo la ventennale stagione della dittatura fascista, è entrato in guerra, suo malgrado. La promessa del duce è quella di una soluzione rapida e indolore del conflitto, ma la realtà si rivela ben altra. Nel volgere di poco, il regno di Vittorio Emanuele III è sotto le bombe alleate. Le grandi città, come Milano, soffrono più di altre il peso del conflitto e qui la pietà e la carità sono pane quotidiano, non solo per i frati cappuccini, ma per tutta la comunità milanese e la sua chiesa.
Solidarietà e condivisione risaltano subito come doti fondamentali di frate Gianatonio da Romallo, un uomo mite, disponibile e sempre attento agli ultimi, agli umili, ai più poveri, a coloro che soffrono, secondo la lezione francescana.
La diocesi di Milano, in quegli anni, è retta dal cardinale Alfredo Ildefonso Schuster. Figlio del sarto bavarese Johann, al servizio del Papa e destinato alla Guardia Svizzera Pontificia e di Maria Tutzer, una sudtirolese di Renon sopra Bolzano, dopo aver preso gli ordini come benedettino, Ildefonso si rivela intellettuale di pregio e uomo di straordinaria fede e così sale rapidamente gli scalini della gerarchia ecclesiastica, fino alla nomina cardinalizia avvenuta nel luglio del 1929 ed all’assegnazione quindi a una diocesi di grande importanza e rilievo come quella ambrosiana.
Durante il “ventennio”, il cardinale Schuster avvia un’opera di “cristianizzazione” del fascismo che non dà forse i risultati sperati e che lo fa percepire, soprattutto da alcune fasce della società, come collaterale al regime, anche se ciò non corrisponde affatto alla realtà. Il cardinale è un uomo di dialogo e di comprensione che fa della carità l’obiettivo della sua missione pastorale e che gli consente di guardare alle vittime della guerra, senza distinzioni di divisa o di appartenenza.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, tutto cambia. In Italia i tedeschi diventano, non più alleati ma occupanti. A Milano il cardinale Schuster, che parla la lingua degli invasori, si prodiga per favorire il confronto non violento, dialogando con tutte le fazioni in lotta: dai partigiani del C.L.N. ai tedeschi del capitano Saevecke ed ai fascisti repubblichini, fino a ritrovarsi nel ruolo di mediatore politico, negli ultimi giorni di guerra, fra la Resistenza, i nazisti e Mussolini. Gli sconfitti dalla storia tentano disperatamente di salvarsi in ogni modo possibile e si affidano al cardinale ed alla sua credibilità, al punto che il gen. SS Karl Wolff consegna il destino dei suoi uomini alla trattativa mediata dal cardinale e riesce così a ritirarsi verso Trento prima e Merano poi.
Ma nei lunghi mesi dell’occupazione e del governo di Salò, Milano è piegata sotto il giogo della violenza più cieca. Padre Gianantonio capisce subito da quale parte deve schierarsi e lo fa con la naturalezza che gli è propria. Più di una famiglia ebrea si rivolge a lui, ormai figura nota in città, per ottenere il battesimo cristiano, nella vana speranza che ciò possa consentire di sfuggire all’odio nazifascista. Il frate battezza, ma non solo. Aiuta molti a scappare, a salvarsi, a nascondersi nel convento dell’Ordine di viale Piave e lo fa consapevole del rischio al quale si espone, ma altrettanto del comandamento che afferma “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Padre Gianantonio fornisce documenti falsi; aiuta gli espatri clandestini verso la neutralità svizzera; raccoglie i mezzi per sostenere la clandestinità degli ebrei, coadiuvato in quest’opera di umanità da alcuni confratelli e da parecchi preti, come lui convintamente attivi nel contrastare il nazifascismo.
La Gestapo ha però orecchie ovunque. Per poche lire alcuni vendono gli ebrei e fanno la spia per i tedeschi come per i fascisti della “Squadra speciale di Polizia” guidata da Pietro Koch ed aggregata alle SS. Fra via Paolo Uccello e via Masaccio c’è una villa, Villa Fossati, che Koch trasforma in “Villa Triste”, ovvero la sede del suo reparto di torturatori e di assassini sadici. È fra quelle mura che qualcuno, dopo un interrogatorio straziante, fa il nome di Padre Gianantonio da Romallo. La confessione rientra nel fascicolo di un procedimento in corso a Bergamo, nel giugno del 1944, contro l’avvocato ebreo tedesco, Hans Gudmann e i suoi legami con la Resistenza e gli Alleati.
Padre Gianantonio viene arrestato e trasferito a San Vittore. L’arresto, per volontà dei fascisti che ritengono di usarlo come deterrente per altri religiosi coinvolti in operazioni umanitarie, viene pubblicizzato molto sulla stampa dell’epoca.
Come per molti altri detenuti in mano tedesca, San Vittore è solo il primo scalino di un orrore che conduce al Binario 21 della Stazione centrale di Milano e da lì al “Durchgangslager” di Bolzano il 17 agosto 1944, da dove frate Gianantonio parte, il 7 settembre, per il Campo di concentramento di Flössenburg, un luogo spaventoso dove solo la morte è compagna dei deportati. Da lì, il religioso viene poi trasferito a Dachau numero di matricola 136984, nella baracca 26 dove rimane prigioniero, in condizioni difficili, fino all’arrivo delle truppe americane, il 29 aprile del 1945, che liberano il Lager. Ma non è solo, in quell’inferno. Con lui condividono la tragedia dei Campi altri 29 sacerdoti italiani, colpevoli di aver aiutato ebrei, partigiani e resistenti nella lotta contro l’occupante e la dittatura.
Padre Gianantonio nella prigionia è una vittima predestinata. I nazisti odiano i religiosi cattolici e li costringono a inutili mansioni massacranti e orribili. Il frate deve trasportare sbarre di ferro pesantissime, per intere giornate che non finiscono mai. Ma il suo spirito non si fiacca. Si offre, a rischio della propria già grama esistenza, come infermiere volontario là dove scoppiano epidemie, al fine di garantire almeno la propria assistenza spirituale ai morenti e come lui altri preti e frati detenuti. Molti muoiono di tifo petecchiale che dilaga a Dachau, ma padre Gianantonio da Romallo riesce a sopravvivere e ad uscire dall’incubo, forte della sua fede straordinaria e di un destino che sembra scegliere le sue vittime a casaccio.
Rientrato al suo convento, un mese dopo essere stato liberato, il frate riprende quasi subito il suo ruolo di Penitenziere presso il Duomo e nel 1965 Milano riconosce il suo impegno e la sua umanità, conferendogli la medaglia d’oro della città. Due anni più tardi, il 25 agosto del 1967, nello stesso convento di via Piave che salvò la vita a molti, Padre Gianantonio ritorna dal suo Dio, consapevole di aver combattuto “la buona battaglia” e lasciando di sé una traccia che spetta a noi non dimenticare più.