C’è un ponte che unisce la val di Non al confine orientale d’Italia, Cles a Grado e Cormons, i Fondriest con i Da Trieste. È un ponte culturale e non solo. Si chiama Fabrizio da Trieste, è “il poeta” (e molto altro) che in mille poesie (in dialetto noneso, gradese, e altri idiomi italico-adriatici) ha cantato e indaga l’uomo e la natura, il mondo di ieri e la condizione del presente. Alla soglia dei novant’anni, che compirà il 19 dicembre del prossimo anno, Fabrizio da Trieste è tornato a Cles per declamare i suoi versi con la stessa prossemica e modulazione della voce di un Dario Fo redivivo. Lo ha fatto, con una sola poesia tra le mille, “la vecla fontana”, a conclusione di una serata che gli ha riservato un piccolissimo spazio finale dopo un rosario infinito di saluti e di ringraziamenti fioriti tra i rami di un mensile, “Il melo”, che ha varcato la soglia dei dieci anni di pubblicazioni. Una serata autocelebrativa di chi confeziona il mensile, una bella pubblicazione che gratuitamente (ne pagano le spese le inserzioni pubblicitarie) raggiunge le famiglie delle valli del Noce (26 mila copie). Edito da padre e figlio (Paolo e Giorgio Leonardi), “il Melo” è diretto da Giacomo Eccher. Per il decennale sono stati pubblicati anche due volumi. L’uno di don Fortunato Turrini, già professore all’arcivescovile di Trento, con frammenti di storia e storie pubblicati in dieci anni sul mensile. Prefazione e presentazione del suo amico e compagno di studi, l’arcivescovo emerito Luigi Bressan. L’altro, antologia delle più belle poesie di Fabrizio da Trieste, il miele del melo, con prefazione e presentazione del suo “caro amico” Renzo Fracalossi. Qui sotto la “laudatio” pronunciata sulla piazza del palazzo Assessorile a Cles. (af)
“Poièin” (ποἰἑἰὺ) è un verbo del greco antico che significa “produrre” – “creare” e definisce quella forma d’arte, nata ancor prima della scrittura, che, accostando parole e significati secondo leggi metriche, giunge a comporre frasi il cui senso semantico si lega al suono musicale dei fonèmi.
Questa è la poesia, che da sempre accompagna a scandisce l’esistenza degli umani. Abitiamo anni difficili e complessi. Viviamo in una continua sospensione fra crescenti incertezze, talora sfocianti in preoccupazioni o addirittura in paure ed una invadenza tecnologica, che sta mutando addirittura i ritmi stessi del nostro esistere, imponendoci un vocabolario, tanto scarno quanto infarcito di anglicismi e tecnicismi fintamente universali e spesso usati anche a sproposito, in un fraseggio povero di senso, oltrechè di sentimenti. In questo desolante e manicheo scenario la poesia, della quale avremmo tutti una necessità essenziale, viene sospinta sempre più ai margini di una galassia culturale, ormai assuefatta al ritmo frenetico ed urgente di un tempo che sembra non avere più tempo.
“In principio era il Verbo e il verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Genesi 1.1). Lo abbiamo dimenticato, purtroppo. Abbiamo cioè scordato la potenza della parola che, nominando le cose, le genera e le raccoglie dentro dimensioni di meditazione e riflessione, come appunto la poesia, che sono indispensabili, oggi come ieri, al vivere dell’uomo.
“Pensa che forza, Turo, la parola/che la da vita, mort e che la sgola,/che la ghj’ ha vita fin che l’Om l’è vio,/che i ghje diseva ‘l Verbo, opura Dio…..”
E’ questa la lezione che giunge a noi, spaesati cittadini dell’età della tecnica, dalla profondità dei versi di Fabrizio Da Trieste, poeta di una grandezza pari solo alla sua modestia e “hombre vertical”, che, un editore attento e sensibile come Paolo Leonardi di Cles ha raccolto in queste pagine preziose. Non si tratta solo di mecenatismo, ma anche di un tributo intelligente di questa Valle e della sua comunità ad uno dei suoi “figli” più prestigiosi e di un riconoscimento che parla con le parole semplici ed essenziali dell’affetto e dell’ammirazione.
Fabrizio Da Trieste è ormai uno degli ultimi “aedi” dialettali, ma anche uno dei pochi interpreti ed eredi della grande tradizione poetica anaune, quella per intenderci dei Pieder Tomàs S-ciaramuzza, Bortolo Sicher e Pieder Berto Lanzile ovvero Guglielmo Bertagnolli e per tale ragione il suo contributo culturale è ancor più prezioso ed importante.
Da moltissimi anni ormai Fabrizio mi onora della sua amicizia ed oggi ne approfitto, parlandovi di lui e della sua innata dote di condensatore, nei suoi versi, di emozioni e sentimenti nei quali tutti noi ritroviamo le nostre storie, le nostre sensazioni, i nostri palpiti, specchiandoci in una poesia che parla anzitutto al cuore.
Figlio di una biografia legata alla parola “radici” – quelle dell’infanzia gradese e quelle clesiane della provenienza familiare – egli padroneggia quel termine nelle sue molte e plurali declinazioni, facendone un canto infinito che si contamina delle più varie esperienze e le traduce in una dimensione, talvolta anche amara, di saggezza e di intenso amore per la vita ed il suo distendersi, anche faticoso e doloroso, sugli anni e sui secoli.
Coniugando costantemente umanesimo e scienza, Fabrizio ha speso la sua esistenza nel coerente impegno di ridare centralità alla poesia, quale medicamento dell’anima e spinta ad incedere avanti senza farsi travolgere dalle mode, dalle paure e dagli entusiasmi effimeri. Non rinunciando mai agli interrogativi sul mistero ultimo dell’esistenza, la sua lirica sovrappone vita e arte, originando in tal modo una poesia che non è mai data, in quanto tale, ma cambia e si adegua al mutare dell’evoluzione, pur restando sempre sé stessa: “’Na goza, doi goze, en colp de sanglot….” e “La vècla fontana”, che all’atto della sua composizione evocava il percorso esistenziale, oggi anima una nostalgia struggente per dimensioni ormai lontane e legate ad un passato non falsato dalla necessità di essere eterno. Per dire con Umberto Eco insomma, la poesia di Fabrizio Da Trieste è “sempre in grado di parlare della rosa, senza mai esaurirne i suoi possibili significati ed i suoi infiniti profumi”, perché la poesia, quella vera ed autentica, è ovunque, anche là dove mai l’avremmo immaginata e rimane in agguato in attesa di riempire le nostre ore con la sua forza immensa. E’ proprio questa caratteristica che rende Fabrizio un poeta ben lontano dalla pletora dei troppi rimatori che si autoproclamano, si autoincensano e si autopromuovono per aver messo in rima solenni banalità. A differenza di costoro, sempre alla ricerca di effetti speciali, il poeta autentico è consapevole che lo spostamento semantico di un termine o di un’immagine non è un fatto estetico fine a sé stesso, ma un intervento che trasforma il significato del pensiero, creando quella meraviglia che certifica la poesia vera e che aiuta la nostra riflessione interiore.
D’altronde, i versi di quest’artista – già “figlio d’anima” di Biagio Marin ed amico condividente di Franco Loi, ovvero di due fra le più alte voci della poesia italiana del Novecento – scendono da una lunga ed affinata frequentazione della letteratura poetica mondiale ed è proprio questa che innesca la curiosità semantica e sonora di una poliglossia che non è mero compiacimento del verso, ma sicuro possesso della forma poetica, accanto ad una non comune abilità di composizione armonica. E ciò vale non solo per i molti dialetti che Fabrizio manipola plasticamente, ma anche per quelle lingue neolatine, soprattutto francese e spagnolo, nelle quali scrive e pubblica ancora a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso. Ma questo poetare, che giunge fino ai confini di ardite sperimentazioni come quelle delle tecniche “Haiku” e “Tanka” di antica tradizione nipponica o quelle del lirismo di scuola iberica, rivela anche la ricerca continua del poeta alla scoperta di sé e della propria identità, messa in dialogo con un mondo che, nonostante tutto, si ostina a ripetere le proprie tragedie. Con le sonorità potenti di un noneso autentico, ecco che, ad esempio, il poeta affronta, con la stessa intensità dei suoi racconti più intimi, l’orrore della guerra balcanica, quale paradigma di tutti i conflitti:
“Su ‘n te che rive frede/demò ‘na busa a Zdenko/dai ocli ciari e la testòta bionda/che ‘l coreva descolz drè a le farfale/per vardarghje le ale/(…..)/Sul salgià del temp al Stari Most/endò che i omni i pòl demò morir,/sgola la mort color/de la Neretva/e la ghj’ha ‘n bochja la parola Mir/”.
Un dialetto per narrare una lotta che, in qualunque tempo, luogo e spazio è sempre identica e sempre terribile, ma anche un dialetto che riesce a congiungere il passato con ciò che verrà, legando il microcosmo del poeta alla dimensione universale della conoscenza e della sua trasmissione, secondo l’insegnamento di Tolstoij.
“E cant che nirà la mort per noi/ghje sarà ‘n val i fiòi dei nòssi fiòi,/bravi de navigar su l’internet,/ma con en bochja amò en bel nònes sclet/che no ‘l sarà, sas Turo, chel dei soratòvi o dei clesiani,/però ‘l sarà amò ‘n nònes, fort e tondo,/mudà come ‘l sarà, al mudar del mondo/(…)/No i ghje dirà, segur, né ‘l Verbo, o Dio/ma ‘l sarà ‘l nònes, e ‘l sarà amò vìo/”.
È questa la cifra che, più di altre, definisce la grandiosità della poesia di Fabrizio Da Trieste, imperniata sempre su di una speranza che, attraverso questi versi, diventa anche nostra e ci offre ragioni ulteriori per proseguire il cammino del giorno che ci attende. Nei versi di una delle più belle “Lettere a Turo”, l’artista sparge a piene mani quella serenità che sa riempire il cuore, accompagnandoci fra le asperità del vivere e rendendole meno ardue:
“[…] Me ven inanda, Turo, primavera/e po’ me ven encontra ancia l’aotòn/ de brume e de colori,/e tut la Val de Non/deventa ‘na cianzon/de zoventù e de flori/che me manda en deliri./E fon matièrie, Turo, e ‘n trà i sospiri/mi no son pù ‘ntà mina/ma son come che rondole che s’ bina/ e sgoli…sgoli/ anc mi….sgoli ‘n ca piazza/del me paes ai pièi de la Benazza”.
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