Il 6 luglio 1944, per non cedere ai nazisti che lo stavano sottoponendo a tortura perché rivelasse i nomi dei partigiani trentini, il conte Gianantonio Manci (1901-1944) si suicidò gettandosi dalla finestra al terzo piano della sede della Gestapo a Bolzano. Il responsabile del Comitato di Liberazione Nazionale per il Trentino era stato arrestato il 28 giugno. L’indomani della seconda guerra mondiale alla memoria di Gianantonio Manci fu assegnata la medaglia d’oro al valor militare.
Toccò al Canonico capitolare Sigismondo Antonio Manci nel 1796 registrare sugli “Annali” di Trento il tramonto del Principato vescovile: in una città ripiena di soldati francesi “che riposan come le pecore nelle contrade, laceri senza scarpe, fettenti indisciplinati”; fu sempre il Manci, la massima autorità cittadina in assenza dell’ultimo Principe vescovo (Pietro Vigilio Thun, fuggito a Vienna all’approssimarsi dei francesi), ad annotare con le seguenti parole il cambio d’epoca in corso: “Nel Castello del Buonconsiglio il loro vittorioso generale, un certo Napoleone Bonaparte, avrebbe così apostrofato l’ultra sessantenne decano capitolare recatosi da lui con gli altri “Regenti lasciati dal Principe Vescovo alla testa del governo civile e politico del suo Stato”: “Io non conosco Principi e se voi prete v’azzardate di immischiarvi in affari politici e civili; uscite entro sei ore dal territorio, altrimenti vi farò fucilare”.
Calò così il sipario sul Trentino di antico regime descritto da Claudio Donati; di lì a poco, siamo nel 1803, il Manci prende atto, che, “essendosi cambiata la sorte di questa Chiesa e Principato, di fronte al susseguirsi di governi provvisori, mi è convenuto troncare il filo di questa storia…”. (Per riaprirne un’altra, che per l’Ottocento e il Novecento vedrà crescere il protagonismo del casato dei Manci sul quale Mauro Nequirito osservava che i diari tenuti dal canonico capitolare Sigismondo “molto ci dicono sulla famiglia del canonico, un ceppo appartenente al patriziato di Trento, benché non annoverato dal libro della cittadinanza fra quelli antichi”.
Di probabili origini marchigiane e accolti come cittadini nel tardo Cinquecento, i Manci entrarono ben presto a far parte del vertice consolare. Una storia nobiliare quella dei conti Manci che si chiude con la ventata napoleonica e l’avvio della nuova stagione. Saranno partecipi attivi del processo che, attraverso il Risorgimento italiano e la Resistenza europea, ha dato vita all’Italia repubblicana e democratica. Lungo le tappe di quel processo troviamo fra i protagonisti di primo piano esponenti della famiglia: Gaetano Manci, il quale, come ricordò Bice Rizzi, durante “la primavera dei popoli” (1848) per aver preso la difesa dei rivoltosi, fu preso in ostaggio e deportato nella fortezza di Kufstein. Eletto podestà di Trento, poi destituito dal governo nel 1860, fu chiamato a rappresentare i trentini nel collegio di Bassano del neocostituito Parlamento italiano.
Sono gli anni in cui fra il 1864 e il 1866, al maturare del progetto insurrezionale, accantonato dall’obbedisco di Garibaldi, a Gaetano Manci si affianca il giovanissimo Filippo Manci, partecipe di tutte le imprese garibaldine. Sul suo volto Cesare Abba vide il futuro: “Manci, a cui veggo negli occhi i laghi del Tirolo verde, ov’ei naque… un cavaliero non ancora vissuto in nessun poema, una gentilezza dell’avvenire…”
E fu Massimiliano Manci, il padre di Giannantonio, a preparare il Trentino all’unione con l’Italia. Su di lui, rientrato dall’esilio nel 1892, eletto per due volte Podestà di Trento, nel 1911 per volontà popolare cadde il veto austriaco.
Il di lui figlio, Giannantonio, fu un eroico difensore dei valori di libertà e giustizia, medaglia d’oro della Resistenza, caduto vittima della repressione nazista il 6 luglio 1944. Una biografia esemplare che riprendiamo nell’ottantesimo della scomparsa, partendo dalla partecipazione del giovane conte Manci all’impresa fiumana a fianco di D’Annunzio. Era con lui il coetaneo Gigino Battisti, con cui Manci condividerà tutte le scelte successive dall’antifascismo alla Resistenza; sullo sfondo le due madri, Ernesta Bittanti Battisti e Giulia Sardagna Manci, nel cui scambio epistolare di quegli anni si coglie il comune sentimento patriottico a sostegno dell’italianità di Fiume.
La vedova di Cesare Battisti, in particolare, visse l’impresa fiumana con grande trasporto: fu due volte a Fiume e questa sua scelta suscitò vivissime preoccupazioni nell’amico Gaetano Salvemini, come conferma ampiamente il carteggio fra i due vecchi amici. Ernesta Bittanti Battisti rimase sempre convinta della natura democratica dell’impresa dannunziana, non discostandosi mai dal giudizio che aveva fissato durante un viaggio di ritorno da Fiume a Trento. Scrisse in un quadernetto di appunti: “Prima che si spegnesse l’eco della cannonata funesta e del lamento dei feriti e del grido dei fiumani sacrificati” Manci, pur giovanissimo, sostenne un ruolo significativo durante l’anno fumano. A impresa conclusa, nel 1921, divenne punto di riferimento a Trento della costituenda sezione locale della “Federazione dei Legionari Fiumani”. Con l’aiuto di Gigino Battisti operò per orientare in senso antifascista gli ex-combattenti trentini nel biennio decisivo che va dalla marcia su Roma al delitto Matteotti.
La formazione mazziniana, l’opzione antimonarchica che già Giuseppe Chiostergi aveva sottolineato essere una delle caratteristiche del “fiumanesimo” portarono Manci, come traspare dalle sue lettere ai familiari, ad abbracciare con entusiasmo il progetto che Alceste De Ambris, capo di gabinetto nel comando fiumano dal gennaio dei 1920, andava elaborando e che si concretizzò nella Carta dei Carnaro. Tale sintonia d’intenti con la dirigenza fiumana è evidenziata dal crescente grado di responsabilità che Manci viene ad assumere con il trascorrere dei mesi.
Pure interessante appare la particolare attenzione che D’Annunzio dedica ai giovani trentini, fino al prodursi in messaggi in cui al solenne omaggio al contributo da costoro portato alla causa nazionale si uniscono affermazioni che oggi tornano d’attualità. Significativa appare anche la lettera con cui il “Vate”, nel marzo 1921, manifesta preoccupazione per le conseguenze del sovversivismo fiumano, che trascinano in galera, anche se per breve tempo, il trentino Giuseppe Piffer, capitano a Fiume:
“Mio caro Manci, mi viene assicurato – da Roma – che il vostro diletto capitano Piffer sta per essere liberato e che la sua liberazione sarà seguita da un’amnistia tardiva ma larga. Ti prego di comunicare la notizia al buon padre. Manderò fra giorni il manifesto. Rimane stabilito quel che dissi nel nostro recente incontro. Affido questo saluto a nostri fidi di Genova, che accompagnano un giovine grande artista: Amos Rattini. Saluti teneri e forti a tutti i miei Legionari. Arrivederci! Vostro Gabriele d’Annunzio”.
In effetti Manci svolse un ruolo molto attivo a sostegno dei sessanta trentini arruolati a Fiume nella “Legione Cesare Battisti” travagliati, negli anni successivi, da non pochi problemi esistenziali come risulta dalla ricca corrispondenza in argomento conservata fra le sue carte. Sicuramente, nella scelta di Manci di aderire al fiumanesimo, pesò la tradizione della famiglia, fortemente impegnata nella secolare battaglia per il conseguimento dell’unità nazionale.
Il momento di ripresa dell’antifascismo trentino a seguito del delitto Matteotti anche se fu in effetti di breve durata creò le condizioni per far sorgere negli anni successivi una rete cospirativa pure in Trentino. Si ha notizia di comizi e riunioni del gruppo di “Italia Libera” di Trento sia dai documenti di polizia che da inviti e volantini antifascisti. Ed è sull’attività dei membri di questo gruppo, di Gigino Battisti in particolare, che si concentrerà negli anni seguenti l’attenzione delle autorità fasciste, come risulta dai rapporti degli informatori per gli anni 1925 e 1926. Sarà merito di questi antifascisti se molti perseguitati dal regime, dopo l’entrata in vigore delle leggi eccezionali, riusciranno ad espatriare clandestinamente.
Una seppur ridotta attività cospirativa, dopo il delitto Matteotti iniziò ad opera del partito comunista. Questo, raccolse con la scissione del 1921 quasi esclusivamente i componenti della federazione giovanile socialista. Riuscì ad organizzarsi a fatica in una zona come il Trentino, particolarmente difficile, come testimonia Lorenzo Foco, allora segretario della FGC d’Italia per il Triveneto: “Come nel Veneto, anche nel Trentino-Alto Adige fu piuttosto esigua la schiera dei compagni che entrò nel partito comunista nato a Livorno. Nel Trentino non raggiunsero il centinaio e furono in gran parte di estrazione operaia e popolare, con qualche contadino.” Non risulta che ci fossero intellettuali o elementi della piccola e media borghesia.
“Chi combatte energicamente il fascismo, se non con opera di propaganda organizzata, ma nei conciliaboli quotidiani, ed ha resistito a omaggi e a pressioni, è proprio la moglie di Battisti. Essa è al fascismo accanitamente avversa e questa avversione palesa continuamente”. (Dal rapporto del 16 febbraio 1927 contenente anche informazioni su popolari, comunisti e massimalisti)
Trascorsi gli anni Trenta, quelli di maggior consenso al fascismo, tornarono a realizzarsi per Gianantonio Manci e Gigino Battisti le condizioni per la ripresa di un più intenso impegno politico. Con il precipitare degli eventi, le opzioni del 1939 e la successiva entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, Manci diviene sempre più il punto di riferimento dell’antifascismo in regione fino ad assumere la guida del movimento l’8 settembre del 1943.
La conclusione tragica della battaglia politica di Manci, seguita al suo appello all’italianità del Trentino rivolto al Commissario Prefetto Adolfo de Bertolini nel momento in cui il Gauleiter Franz Hofer sanciva di fatto l’annessione al Terzo Reich della terra di Cesare Battisti, colloca l’impegno del patriota trentino per Fiume italiana all’interno di un contesto che poco concede alla retorica dannunziana di cui pure il fiumanesimo fu massimamente permeato. Un contesto che la recente storiografia in argomento si è incaricata di definire in modo più rigoroso di quanto non sia avvenuto per il secondo dopoguerra, sull’onda dell’equazíone storiografica che tendenzialmente omologava il fiumanesimo al fascismo non considerando quanto l’impresa di Fiume fosse perfettamente nella linea e nello spirito delle proposte di Wilson. Spirito, che avrebbe dovuto comprendere la città di Zara e le isole per le identiche ragioni, e col medesimo programma di civiltà internazionale, con cui la linea di Wilson comprendeva Gorizia, Trieste e le città litoranee dell’Istria.