Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra a fianco della Germania contro Francia e Inghilterra. Quattro anni dopo, il 6 giugno 1944, lo sbarco degli Alleati sulle spiagge della Normandia. È il “giorno più lungo” secondo il titolo di una pellicola che arrivò nelle sale nel 1962. Alla vigilia delle elezioni europee e con una guerra in corso nel cuore dell’Europa l’anniversario si carica di significato.
6 giugno 1944, il cielo è plumbeo. Ha piovuto fino a pochi minuti prima del dischiudersi della luce. All’alba le sentinelle tedesche avvistano, fra la nebbia che sale dal mare, le sagome di migliaia di navi. Non credono ai loro occhi. Navi e navi e navi che coprono tutta la linea di orizzonte.
“Sie kommen! – Arrivano”. È il D-Day, il giorno tanto atteso per l’apertura del secondo fronte, invocato da Stalin per alleggerire la pressione tedesca sul versante sovietico. Dopo un anno di preparazione intensa e soprattutto segreta, finalmente “Ike” – il generale americano Dwight Eisenhower che è al comando di “Overlord” – nonostante le previsioni meteorologiche avverse decide di “andare” e un’immensa macchina bellica composta da navi, aerei ed oltre 150.000 soldati si mette in moto. Non è solo la più grande operazione anfibia della storia, ma è anche l’avvio di quella sconfitta definitiva delle dittature e dell’orrore nazifascista che hanno soggiogato per troppo tempo l’Europa e non solo. Di quel giorno alcuni frammenti delle cronache giornalistiche di Ira Wolfert, uno dei grandi corrispondenti di guerra dell’epoca, aiutano forse a rendere l’idea.
“Sulla spiaggia in cui sbarcammo, l’aria era pulita, dolce, marina. Grandi stormi di gabbiani calarono su di noi, protestando contro l’invasione americana con una cascata continua di note acute.
Quel paesaggio nudo aveva una sua forza, una bellezza selvaggia e ventosa: ma la morte era in agguato ovunque. I tedeschi avevano minato tutta la spiaggia, centimetro per centimetro e i nostri soldati erano riusciti a sminare solo alcuni stretti passaggi, ma l’operazione ci costò diciassette feriti e un morto. Su quelle strette piste fra le mine dovevamo camminare, dormire, mangiare e lavorare: camminando, mettevamo un piede davanti all’altro con precauzione; per dormire si preparavano una fila di pietre a destra e una a sinistra per impedirci di rotolare durante il sonno.
Noi sbarcammo nel primo pomeriggio del 6 giugno. Il vento stava calando e dappertutto si libravano nuvole di fumo grigio e nero, sospese nella brezza ormai debole. Quel fumo proveniva dagli aerei abbattuti, che bruciavano, ma anche dalle mine che i reparti di demolizione facevano esplodere e dalle granate tedesche: la terra stessa sembrava ardere. Dal mare proveniva un flusso continuo di soldati che subito si mettevano al lavoro: scavavano, martellavano, guidavano scavatrici o autocarri, organizzavano, davano ordini, controllavano, sparavano e si facevano sparare addosso. Intanto fra i boati di artiglieria e le scariche di mitragliatrice, fra i sibili e gli scoppi delle granate, si poteva distinguere il paziente ticchettio delle nostre macchine da scrivere e il trillo dei telefoni: suoni familiari e quotidiani. (….) I primi francesi che incontrai erano una tipica famiglia di contadini normanni: alti, forti, con gli occhi azzurri e le guance rosse. Parlammo un po’ dei bombardamenti e domandai loro come fossero riusciti a cavarsela. – “È stato un vero miracolo! Ma i tedeschi sono stati peggio dei bombardamenti.”- Non riuscivo a ricordarmi come si dice in francese “correre” e quindi domandai se i tedeschi, accantonati nella loro fattoria, se ne fossero andati “passeggiando in fretta” all’inizio dei bombardamenti. Tutti scoppiarono a ridere: – “I tedeschi hanno passeggiato davvero in fretta. Passeggiato come fulmini! – Eppure si trattava di veterani incalliti, che non concedevano mai di ripetere lo stesso errore, ma avevano adesso una spiccata tendenza ad arrendersi e sembrava solo che cercassero motivi sufficienti per farlo. Venivano dal fronte russo e lì avevano perso la voglia di fare la guerra. Combattevano finché pensavano di poter avere il sopravvento, ma non era difficile convincerli che stavano perdendo e allora si arrendevano”.
Sull’altro lato del fronte, ovvero quello tedesco, è lo stupore soprattutto a prendere il sopravvento in quelle livide ore, dove si decide il destino. Nelle casematte e nei bunker del “Vallo atlantico”, ovvero di quella “Europa Festung” che Hitler ha voluto per blindare i confini settentrionali del continente da Bergen a Biarritz, le ore antecedenti lo sbarco scorrono tranquillamente. Certo, l’Abwehr ha intercettato i messaggi in codice che Radio Londra inoltra alla Resistenza francese e soprattutto uno: “I lunghi lamenti dei violini d’autunno feriscono il mio cuore…”. Sono versi di Paul Verlaine e avvisano dell’imminenza dello sbarco. Il controspionaggio militare allerta Berlino, ma nessuno dà credito ad un’idea che, non solo contrasta con le “preveggenze” del Führer convinto di uno sbarco effettivo al Pas de Calais, ma cozza anche contro condizioni atmosferiche talmente avverse che nessun pazzo si arrischierebbe a tentare un’impresa del genere. Proprio sulla base di queste analisi, il feldmaresciallo Rommel, che comanda il Gruppo di Armate B e il “Vallo atlantico”, decide di lasciare la sua residenza a La Roche Guyon per una breve licenza a casa.
Quel mattino, il caporale Hermann Schmid si accinge ad andare a prendere il rancio per la colazione dei suoi commilitoni, che sono di guardia nei bunker situati sopra ad una scogliera a picco sul mare. Non sanno che proprio la loro zona ha un nome in codice per gli Alleati: “Omaha Beach”. Lo comprenderanno di lì a pochissimo. Non solo loro, ma anche i “G-Man” statunitensi che vestono la divisa dei “Rangers”. Di loro quasi undicimila rimarranno sotto le croci bianche, allineate in una geometria agghiacciante, nel cimitero militare americano di Omaha.
Due “Panzerdivision” della Wehrmacht sono dislocate nei pressi di Parigi. Basterebbe solo ordinare di inviarle al fronte e il tentativo di costruire una “testa di ponte” per lo sbarco alleato andrebbe in pezzi, ma non succede nulla. Il Führer è il comandante in capo. Solo lui può ordinare il movimento di quelle divisioni corazzate e adesso……dorme. Gli alti vertici militari non osano disturbarlo e nessuno prende una decisione che potrebbe essere risolutiva. È il limite – e anche la forza – del potere assoluto, in un gioco di scarico della delega delle responsabilità. D’altronde, le notizie che arrivano a Berlino dalla Normandia sono ancora frammentarie e confortano Hitler nell’idea che si tratti di un diversivo, mentre il vero sbarco avverrà dove lui ha sempre affermato, cioè a Calais.
Al largo delle coste si muove, nel frattempo, la più grande flotta che la storia navale abbia mai visto. A bordo di una di quelle navi, alle prime luci del giorno, si scorgono le fiamme che si levano dal villaggio normanno di Montebourg. La causa è l’incrociatore americano Tuscaloosa e, più precisamente, il tenete Joe Pergash di Tampa, che è uno degli osservatori incaricati di dirigere il fuoco navale da terra. Pergash ha una radio ed è in contatto con Theral O’Bryant e William Braybrook che stanno sulla grande nave da battaglia. Ma sono ancora le parole di Ira Wolfert a renderci viva la situazione: “Joe avvisa via radio la nave: – reparti di fanteria tedesca si stanno trincerando nella piazza principale del paese. Teniamoli allegri! – I cannoni dell’incrociatore aprono il fuoco. Poi Joe cambia posizione e d’un tratto indica un bersaglio e urla: – aprite il fuoco! – Subito dopo non lo sentono più. O’Bryant rimane a lungo in ascolto, ma trova solo silenzio. Poi, d’improvviso, una voce tipicamente britannica che proviene da un aereo da ricognizione: – un’autocolonna sta entrando nel villaggio e i soldati scendono e prendono posizione vicino ad un cimitero. Vi spiacerebbe mandargli qualche colpo? – Il Tuscaloosa spara una salva e subito la voce dall’accento britannico perde tutta la sua flemma ed esclama: – Splendido! Davvero un tiro meraviglioso! – Un’unica salva dell’incrociatore da battaglia ha mandato in pezzi dieci autocarri tedeschi. Poi, d’improvviso, la voce inglese alla radio riacquista tutta la sua calma: – Adesso devo chiudere. L’aereo che mi copriva è stato abbattuto e un crucco mi sta tirando addosso. Arrivederci a tutti. – O’Bryant da bordo della nave risponde. – Ok, buona fortuna e grazie – ma la voce con l’accento britannico non si fa più sentire. In compenso ritorna invece il timbro americano di Joe: – Ragazzi, ho dovuto smettere prima perché i tedeschi ci hanno inchiodati per due ore. Se avessi alzato solo un po’ la testa, per vedere cosa stava accadendo, me l’avrebbero staccata di netto. – poi Joe riprende a correre da un posto all’altro, individuando ed osservando. O’Bryant si concede un attimo di pausa e dal ponte osserva Montebourg in fiamme. Poi si accende una sigaretta ed esclama: – Joe sta arrostendo, fra tutti quegli incendi. – Un’ultima boccata ed eccolo di nuovo alla radio.”
Non è possibile registrare i milioni di episodi, come questi, che rendono quel 6 giugno 1944 veramente “il giorno più lungo”. Centinaia di migliaia di uomini partecipano direttamente o indirettamente ad un evento che sta mutando il corso stesso della guerra e con esso anche quello della storia.
Oggi, esattamente ottant’anni dopo quel giorno, farne memoria ha più di un significato. Anzitutto rendere onore a quei ventenni fumatori di Camel e Lucky Strike, che andavano avanti al suono delle cornamuse e che si sono sacrificati in nome di una idea di libertà, attraverso la quale ha preso corpo la vita democratica di questo continente. In secondo luogo, quello di osservare i molti paralleli che sembrano correre fra quelle vicende e ciò che sta accadendo nuovamente in Europa, dove la sconsideratezza di un dittatore che vuole annettersi territori e genti sta riproducendo le medesime condizioni di allora. Infine, il senso mutato della guerra: non più prosecuzione della politica con altri mezzi, come la definiva Clausewitz, bensì evento fine a sé stesso, privo di logica politica e legato solo a dimensioni meramente economiche e di mercato o alle farneticazioni degli autoritarismi e dei fanatismi.
Se quest’anniversario e la sua memoria ci spronano a riflettere razionalmente su tutto ciò che sta accadendo in questo nostro tempo tormentato, allora le ricorrenze servono ed assolvono al loro difficile compito, che è semplice e, al contempo, complesso: ricordare per non ripetere.