Tutti abbiamo avuto una nonna e una bisnonna e, a ritroso, fino a Eva o chi per lei. E ogni bisnonna se ne è andata all’altro mondo col vestito della festa o che lei riteneva tale. Perché è ben vero che un funerale non è una festa, ma davanti al Padreterno, o chi per lui, ti presenterai a modo, o no? Così era da queste parti ma anche altrove, nel profondo sud dove affondano le radici e la memoria di Joseph Tassone il quale, con il tema, ha una certa familiarità.
Avevo una bisnonna. Due guerre mondiali, undici o dodici gravidanze, la cultura a tratti violenta dei contadini calabresi di inizio Novecento e almeno sessanta inverni passati “affacciabbocconi” a raccogliere olive, una ad una, le avevano lasciato in regalo, nell’estrema vecchiaia, una poco pietosa demenza che i figli chiamavano arteriosclerosi e i dottoroni Alzheimer.
Qualunque cosa fosse quel malessere, la bisnonna viveva e riviveva senza requie i suoi trent’anni, angustiandosi per il poco cibo da mettere in tavola e il marito incline ad affogare nel vino i ricordi di trincea, per i panni da lavare al fiume e i lavori nei campi. Un’ansia costante rendeva amari i suoi ultimi anni che solo una retorica di marca romantica, falsa come le banconote da quattordicimila lire, narrava placidi e scaldati da affetti e focolare. Quella poveretta soffriva ogni giorno le peggiori pagine della sua vita.
La bisnonna non sapeva scrivere, manco a dirlo, però aveva imparato a leggere. Io l’ho vista sempre china su squinternati libricini devozionali di cui temo non cogliesse neppure il senso letterale, figurarsi quello dottrinale. Tuttavia, pensando alla sua vita, mi sono sempre chiesto se non avesse suggerito lei a Quasimodo la faccenda della giovenca che guardando il cielo aspira avida l’aria, il belato fraterno della capra a Saba, a Pezzani lo stillare dell’olio nel lume. Di sicuro aveva familiarità con Ungaretti, perché anche nel suo cuore nessuna croce mancava.
Talvolta per brevi momenti si rendeva conto della sua vera età e il pensiero correva subito ai “mortaggi” : come predisporsi al morire, quanti soldi mettere da parte perché il funerale non gravasse sui superstiti, a chi lasciare quei quattro mobili tarlati ch’erano la sua ricchezza, come vestirsi per calare nella fossa. Eh sì, lei – come suppongo tutta la sua generazione – assegnava enorme importanza all’ultimo vestito, a quello col quale, sono parole sue, si sarebbe presentata al Signore.
Assistetti anch’io “affatato” (ammaliato), meno che decenne, al momento in cui apriva i bauli e illustrava al magro pubblico di figlie, nuore e nipoti coi ginocchi sbucciati le vesti che da lungo tempo aveva scelto e teneva pronte per la sua morte; le mani si facevano lievi nel toccarle, le accarezzava con gli occhi, le accudiva con quella delicatezza che nei suoi anni verdi non aveva riservato ai figli.
“Così voglio presentarmi al Signore, semplice, semplice – quasi recitava – senza alcuna vanità di mondo, senza tutti quei nastri e quelle trine con cui ha addobbato, per esempio, la sua veste di morte zia Carmela…”.
“Sìmprici, sìmprici”, diceva, e nel vestito concentrava tutta la semplicità di cui era capace, lasciandone purtroppo sprovvista la lingua. Non saprei dire se di questo la bisnonna abbia pagato dazio dopo la morte, di certo lo pagava quasi ogni giorno zia Carmela.
Ma sto divagando. Il vestito: una veste intera dal taglio dritto, senza sagomature per castigare le forme che non aveva più, lunga assai sotto il ginocchio, nera. Unica concessione a se stessa e al Signore un modesto ricamo sul petto: in oro, la silhouette di un mezzo sole nascente che tra un raggio e l’altro recava maiuscole le lettere della parola “charitas”. Perfetto per il personaggio che aveva deciso di impersonare anche da morta. Un paio di scarpe lucide lucide, rigonfie in punta, senza tacco e con un vistoso, incongruo carrarmato, completavano l’equipaggiamento per l’ultimo viaggio.
Fu accontentata. Nell’umida giornata di marzo che fu l’ultima sua, alla vigilia dei novantasei anni, le figlie ne vestirono la spoglia affilata con il famoso vestito che da gran tempo aspettava paziente il suo momento di gloria.
Le scarpe però non passarono l’esame e furono sostituite da altre meno bellicose.
La veste di morte della bisnonna mi ha fatto tornare alla mente le altre ritualità – costumanze direbbe chi studia queste cose – in tema di morti e di vestiti.
Giù dalle mie parti i morti andavano vestiti secondo il sesso e regole precise: per i maschi erano di rigore completo e cravatta (e se da vivi non l’avevano messa neppure al matrimonio, poco contava); per le donne vi era maggior libertà di forme, purché il colore non osasse oltre il blu, il nero o il grigio. Facevano eccezione i bambini, composti nel vestito della Prima Comunione, e le giovani spose, a cui era concesso di andarsene velate di bianco come il giorno del sì. Per tutti tra le mani un fazzoletto da naso listato a lutto, ripiegato e inamidato come un corporale da messa, rosario di prammatica e una copia delle Massime Eterne di cui le imprese di onoranze funebri avevano un magazzino fornitissimo.
Soprattutto se la famiglia poteva permetterselo, tutti i vestiti, intimo incluso, dovevano essere nuovi di pacca, le tasche restavano cucite e per le scarpe erano in vendita modelli dalla suola finta, morbida cioè, inadatta a camminarci sopra. Risparmio? Macabro cinismo? No. Una ricchissima ritualità intessuta di messaggi muti messi addosso al morto ma rivolti al vivo: non mi serve scucire le tasche del vestito, perché non posso più metterci dentro danari, così come non mi servono delle vere scarpe, perché con le mie gambe non andrò più da nessuna parte.
Eppure, eppure, ora che ci penso bene, qualcosa di usato nel corredo del defunto c’era: il sudario. Il caro in partenza veniva adagiato nella bara, “u tambùtu”, con un lenzuolo tessuto al telaio le cui falde venivano lasciate ricadere lungo i fianchi del cofano durante la veglia per poi essere ripiegate delicatamente sul corpo prima della sepoltura. Mica la “velatio” sanno farla solo a Roma ogni morte di papa, eh!
Sono passati tre decenni buoni da che la bisnonna ha preso a passeggiare per i Campi Elisi e, sarei quasi pronto a scommetterci, di quel famoso vestito resta solo il mio ricordo di bambino. Questo è la vita di un uomo rispetto al tempo che passa: l’arco trascurabile di una circonferenza smisurata, immemori il punto che lo precede e quello che lo segue, anche quando i raccontini dei bisnipoti provano a ricalcarne la traccia sbiadita.