Arriva la Pasqua ma la colomba, quella che dovrebbe essere simbolo di pace, è stata crocifissa ormai da troppo tempo. Nella notte incipiente non se ne intravede un’altra che la possa sostituire. In questo “venerdì” non più santo, giorno qualunque di lutti e di passione, continua a prosperare la malapianta del pregiudizio e dell’odio che si alimenta via via con gli orrori di una strage infinita di umanità. Il sepolcro vuoto della Pasqua cristiana si riempie ogni giorno di nuovi cadaveri, di vittime innocenti, di lutti e di disperazione. Gli scenari di guerra, di terrorismo e di violenza non sono così lontani da noi perché non ci si interroghi su ciò che sta accadendo. Renzo Fracalossi, attento osservatore dei “segni del tempo”, cerca di decifrarne il significato e le prospettive.
Come spesso accade, la progressiva radicalizzazione delle posizioni alimenta i pregiudizi che, a loro volta, nutrono il manicheismo più facile e deleterio, come dimostra, con crescente enfasi d’odio, la quotidiana marcia della moltitudine che ha scelto di appoggiare chi dichiara per suo scopo primo la distruzione di tutti gli ebrei del mondo. Si tratta di una marcia che non si sofferma mai; che non si confronta, in nome del confronto; che censura, per protestare contro la censura; che vive di pregiudizi sempre premettendo di non essere preconcetta e che rifiuta ogni punto di vista che non sia perfettamente allineato, in un trionfo di intolleranza che si agita su di un fondale fatto solo di verità incontestabili ed unidirezionali.
A nulla serve, davanti a un simile e impenetrabile muro di rifiuto, tanto generalizzato quanto insensato, riconoscere chiaramente i tragici ed esagerati errori e le esasperazioni continue di una esecrabile politica di guerra come quella dell’attuale governo di Netanyahu, che raccoglie in larga parte un’accolita di estremisti ultraortodossi, di visionari e fanatici, di cinici approfittatori e di incompetenti che mai abbia guidato Israele. A nulla vale invocare una lettura analitica dei fenomeni, dei loro esiti e delle ragioni della storia ed ancor meno sembra avere senso qualsiasi appello ad una ragionevolezza consapevole, ad una indispensabile e reciproca tolleranza e ad un’equa suddivisione di responsabilità e colpe. In questa montante marea di odio “a prescindere”, rischiano di svanire anche i due principali caratteri di originalità storica che contraddistinguono questa tragica e complessa vicenda.
Il primo è rappresentato dalla consapevolezza che mai, se si esclude forse la particolarità unica del caso nordirlandese, una campagna di terrorismo, per quanto spietato e crudele, ha spinto ad una modifica delle politiche di uno Stato, né, tanto meno, lo ha mai sconfitto militarmente, così come ed al contempo, nessuno ricorda una sconfitta definitiva ed assoluta dei fenomeni terroristici, attraverso la mera repressione poliziesca e militare. Tali fenomeni si esauriscono invece e come insegna il caso italiano, solo se vengono meno gli ambienti, le condizioni e le condivisioni di massa nelle quali fermentano.
Il secondo carattere invece risiede nella comprensione dell’evidente e totale incapacità palestinese di concepire la lotta politica fuori dal contesto della violenza terroristica. Ciò rivela la sostanziale debolezza di un estremismo privo di autorevole leadership e, soprattutto, carente di un vero progetto politico per il futuro; un estremismo accecato solo dall’urgenza di perpetrare sé stesso ed il proprio potere. Da un lato quindi un terrorismo privo di coagulo sociale ed incapace di tradurre in “realpolitik” le rivendicazioni, dando corso ad una prospettiva di dialogo ancorché minima e, dall’altro, il governo di uno Stato democratico e moderno, prigioniero di sé stesso, dei propri fanatismi e confini ideologici e della propria interessata sopravvivenza politica e personale. Si tratta di due poli che non possono attrarsi mai e che alimentano una spirale apparentemente senza fine.
Ma è il silenzio collettivo dell’occidente sull’obiettivo finale di Hamas – che risiede, come già fu per i nazisti, nella “soluzione finale della questione ebraica” – che evita di mettere a fuoco il vero punto dirimente dell’intero dramma mediorientale.
Sarebbe interessante sapere se qualcuno, fra i tanti che sventolano bandiere quadricolori, si lanciano in proclami di odio etnico inseguendo teorie tanto assolute quanto assurde come quelle “dal fiume al mare”, si è mai interrogato sui veri obiettivi politici di quest’organizzazione e del suo violento regime di sottomissione collettiva degli arabi di Palestina alla casta del terrore. La risposta è, purtroppo, una sola: l’eradicazione della componente ebraica dell’umanità. Quel terrorismo infatti agisce, per sua stessa e ripetuta ammissione, con il solo fine di distruggere Israele e con esso l’ebraismo in quanto tale e per farlo non disdegna alcun mezzo, ivi compreso quello del massacro della sua stessa gente usata come “scudo umano”, cavalcando, con più di una complicità e connivenza, la tragedia a fini propagandistici internazionali.
È in questo processo che prende vita un antisemitismo di tipo quasi “nuovo”, perché a carattere soprattutto culturale e accademico, che vigoreggia in molti ambienti oggi dichiaratamente schierati, tanto quanto ieri totalmente disinteressati ai massacri in Siria o alla tragedia del popolo curdo o di altre minoranze ed etnie. E, se d’improvviso, la guerra cessasse, come tutti auspichiamo, cosa proporrebbero quegli ambienti all’unico loro interlocutore e cioè Hamas e le galassie che ruotano attorno a tale organizzazione? Cosa direbbero in quel caso, i sostenitori di una “free Palestine”, che non ha, perché non la si vuole, una forma giuridica affidabile nemmeno davanti alla sua gente? Deporrebbero forse le armi i terroristi del Jihad, per avviare il dialogo? Ma ci credono davvero i professori filopalestinesi che sottoscrivono appelli e dichiarazioni di repulsione antisemita? E parimenti, cosa succederebbe in Israele? La caduta, auspicabile, del governo, porterebbe ad una pace claudicante oppure, come più probabile, ad uno scontro civile fra fazioni attorno alla deleteria politica coloniale, in un Paese dal potenziale nucleare? Ed un simile scontro potrebbe, infine, degenerare nell’implosione dello Stato democratico? E con quali conseguenze: teocrazia o dissoluzione?
Si tratta certamente di domande impegnative ed alle quali forse nessuno si pone l’impegno di cercare risposte, perché non c’è alcun interesse in quelle risposte. Quello che conta è solo cacciare gli ebrei. Espellerli dalla storia, per superarne le infezioni. Subito. Finalmente. Come nella foresta di Sosenski, vicino a Rovno in Ucraina, dove fra il 6 e il 7 novembre 1941 il massacro nazista degli ebrei locali non lascia nessuno in vita o come la foresta di Re’im, nel sud di Israele, dove lo scorso 7 ottobre si è svolta la prova generale dello sterminio tanto agognato.
Non si tratta di negare a nessuno la possibilità di protestare, di contestare, di rifiutare le politiche di un Paese come Israele. Non è questo il nodo del contendere. Dentro l’onda di rancore radicale che prende piede nelle università italiane ed europee riaffiora infatti quel sentimento generico di eliminazione dell’Altro, a causa della sua diversità e della sua storia, che ha segnato i secoli della persecuzione antisemita e che credevamo fosse rimasto confinato per sempre dietro i cancelli di Auschwitz. Questa è la questione vera e ultima. Credere di aver sepolto l’antisemitismo dentro la terra della democrazia, della cultura e della memoria è stato ed è un errore. Non battersi contro quel sentimento di odio è invece una colpa intenzionale e nella quale l’umanità tutta rischia di perdersi.