Ci sono storie, magari relegate nei loculi semi abbandonati di un cimitero, che resistono all’oblio e alla polvere del tempo solo perché un lontano congiunto si ostina a volerle mantenere in vita. È quello che si chiama l’esercizio della memoria storica, l’empatia delle radici, l’immortalità del pensiero che si fa immagine e che ridona, magari solo per un attimo, respiro e dignità a chi ha bagnato e reso fertile la terra col il sale delle lacrime e il sudore della fatica.
Si chiamava Giuseppe Tassone e morì il 9 settembre di tanti anni fa, nel 1948. Era il mio trisavolo; cioè, quando morì non lo era ancora, ma lo sarebbe diventato. Non bisognava neppure aspettare tanto, considerato che le sue figlie, le sue nipoti e via discendendo iniziavano a partorire intorno ai 17 anni e proseguivano al ritmo di un figlio ogni due anni fino alla menopausa, se ci arrivavano (loro o il marito, s’intende!).
Un anno sì e un anno no, come gli ulivi sotto i cui rami si spezzavano la parte di schiena trascurata dai parti. Un’annata piena e una vacante, dicevano pensando alla raccolta delle olive e ai loro ventri.
Per tornare a Giuseppe Tassone: nato tra la Spedizione dei Mille e la proclamazione del Regno d’Italia (il 22 gennaio del 1860), morì a ridosso dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana; non a causa sua, credo.
Analfabeta e non soggetto a leva militare, non uscì mai dal suo paese – se si esclude qualche breve sortita per consultare una maga di un borgo vicino – si sposò per sua stessa ammissione vergine, lavorò, pagò le tasse senza capire bene perché, subì il carattere indocile della moglie, divenne rispettato estimatore di terreni e raccolti, seppellì i suoi morti (tanti, tra brutti e buoni) e si fece seppellire senza far storie quando venne, senza fretta, il suo turno.
Gli erano indifferenti, perché sconosciuti, i Borbone, i Savoia, la Destra storica e la Sinistra che le sopravvenne, la monarchia liberale, il fascismo e la Repubblica.
Meno indifferente gli fu la Prima guerra mondiale, che rubò ai suoi campi le braccia di un figlio e di un genero; il primo tornò dal fronte, l’altro rimase a prendere il sole sul Monte San Michele sul Carso ed è ancora lì.
Di questo mio trisavolo resta un loculo in rovina nel cimitero che soltanto io mi avventuro a visitare ogni lustro circa, una sola e unica fotografia e due o tre ricordi sbiaditi nelle menti, altrettanto sbiadite, delle poche nipoti che ancora vivono.
Di lui, a essere puntuali, resta il nome, Giuseppe, come il “casto Giuseppe” o “Giuseppe uomo giusto” della Bibbia. Può essere nulla e può essere tutto.
Questo nome lo ebbe in eredità (senza pagare la quota a Vittorio Emanuele, per la prima e unica volta) da uno zio morto giovane prima che lui nascesse; a tempo debito lo trasmise a mio nonno e mio nonno lo diede a me, deformato in Joseph per una storia di emigrazione senza storia. Io un po’ gli voglio bene. Non c’è motivo di stupirsene: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. O no?
(traduzione della frase latina, dal De contemptu mundi di Bernardo di Cluny che chiude anche lo straordinario romanzo “Il nome della rosa” di Umberto Eco: “La rosa primigenia esiste solo nel nome, (noi) possediamo soltanto nomi nudi”.)