Ma Lorsignori sono mai andati in un Pronto soccorso di ospedale, in provincia di Trento? Probabilmente no, e se lo hanno fatto, come dice un’infermiera del Pronto Soccorso, “loro trovano sempre una corsia preferenziale”. E chi li ha ri-votati ha mai avuto a che fare con attese che si prolungano oltre il ragionevole? Probabilmente no. E se ne hanno avuto bisogno, devono aver trovato un servizio eccellente o hanno fatto finta che così fosse. Da quando il Servizio sanitario è diventato un’Azienda, le cliniche private sono decollate e la sanità pubblica è finita sotto la ghigliottina del taglio alle spese. A scapito di chi può permettersi solo il ricorso al pubblico.
Sgombriamo subito il campo dal sospetto che quanto andiamo scrivendo sottenda anche la pur minima critica al personale del Pronto Soccorso e degli ospedali in genere. Al tempo del Covid (cioè quando la pandemia mieteva vittime che neanche la falce più affilata avrebbe immaginato) li hanno, li abbiamo, chiamati “angeli”. E tali, per noi, restano. Anche se premi, aumenti di stipendio, onori e gloria si sono svaporati al primo stormir di fronda. Hanno fatto la fine delle promesse elettorali. Fuffa.
Sull’abnegazione, il sacrificio e, diciamolo pure, sulla rassegnazione che pervade gli operatori sanitari pubblici, non si possono sollevare dubbi. Sulle figure apicali, sui responsabili politici che hanno tollerato, quando non favorito, lo sfascio della sanità pubblica a vantaggio delle strutture private, i dubbi e gli interrogativi sono molteplici. E senza attenuanti.
Gli esempi sono all’ordine del giorno (e anche della notte). Ve ne raccontiamo uno per tutti perché ciò che è capitato (per caso) a un nostro conoscente è ciò che capita a molti disgraziati più o meno tutti i giorni: a Trento ma anche altrove. E non vorremmo essere utenti degli ospedali periferici perché in questi giorni, gravati dal turismo invernale, cominciano a diventare i terminali privilegiati degli infortuni sul ghiaccio e sugli sci.
Ciò detto, il nostro conoscente ha avuto la disavventura, banalissima, di scivolare sulle scale mentre, di ritorno a casa da una passeggiata sotto la pioggia, scendeva in cantina a prendere un paio di scarponi. Non più ventenne, ha battuto la testa sull’ultimo gradino della scala e si è trovato disteso, stranito e dolorante. La botta in testa, nella regione occipitale, ha consigliato i familiari a portarlo immediatamente al Pronto soccorso. Dove è stato accolto alle ore 18 (in codice azzurro) per “trauma cranico”. Medicato da una escoriazione alla testa e lamentando, il disgraziato, un forte dolore (di testa) gli è stato somministrato 1 grammo di paracetamolo (tachipirina). Alle 19.43 il paziente è stato accompagnato, in carrozzina, nel reparto di radiologia dove gli è stata riscontrata una “frattura composta del corpo scapolare sinistro con trauma cranico lieve”.
Vista la prognosi di “30 giorni salvo complicazioni”, tutto sommato gli era andata bene. Ma il trauma cranico andava indagato. E così il medico del Pronto soccorso ha deciso che il nostro, avendo superato i 65 anni, doveva, per prassi, essere sottoposto a TAC. Sia mai che la caduta abbia avuto origine da un’ischemia transitoria o da problemi “dentro” la testa. Inoltre, il sanitario doveva scoprire se c’erano ematomi o altro. Insomma, una scelta più che opportuna.
La TAC, effettuata prima di mezzanotte, non ha rilevato “alcuna lesione secondaria al trauma cranico”. Da brindare allo scampato pericolo. Intanto, in attesa del referto e delle dimissioni, il Pronto soccorso si era affollato di nuovi “pazienti”, di altri traumatizzati da scivoloni fuori programma e da cadute di ordinaria ordinanza. Frammisti ad altri malati in attesa di visita ed eventuale ricovero. Un bivacco. Vecchietti che chiamavano le infermiere, implorando un goccio d’acqua (“signorina, ghò na sé putana”); orfani da una vita, vista l’età, che invocavano i genitori e la Madonna; che sacramentavano a voce alta mentre ognuno pensava ai fatti propri. Tutti in attesa, come il tenente Giovanni Drogo nella fortezza Bastiani del “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati.
Le ore della notte sono più lunghe, se passate su una seggiola e a contatto con la sofferenza altrui. Qualcuno sonnecchiava, altri sbuffavano, altri ancora riflettevano sulla caduta dei gravi. Nel senso di quanto sia facile scivolare e cadere. Tutti in attesa, come il tenente Drogo. In attesa del referto finale.
Le ore passavano e della lettera di dimissioni nemmeno l’ombra. L’infermiera di turno, sollecitata, allargava le braccia: “C’è un medico solo e ci sono molti pazienti in attesa”. Mai sostantivo stava dimostrando un aggettivo tanto oggettivo: pazienti, appunto.
E vennero le 2 e poi le 3 della notte. Della lettera di dimissioni nessuna traccia.
Finalmente, alle 3.04 il nostro conoscente, col braccio al collo, si trovò in mano l’invocato foglio come il “congedo illimitato provvisorio” dei tempi della naja.
Gli altri compagni di disavventura continuavano a bivaccare.
Fuori dal Pronto soccorso diluviava. Metafora di una sanità pubblica lasciata colpevolmente senza prospettive e senza ombrello.
Non si trovano medici, infermieri, collaboratori sanitari? Basta pagarli un po’ di più. Com’è che quando si tratta di mettere in palio 36 posti a sedere nell’aula del Consiglio provinciale si trovano subito più di 700 concorrenti? Non sarà che lo stipendio di 10 mila euro lordi al mese fa più gola dei 1500-2000 euro della paga agognata dai comuni mortali?
Nei Paesi Scandinavi, dove approdano anche i nostri laureati, gli addetti alla sanità prendono il triplo di stipendio e hanno l’alloggio pagato. Da noi, per richiamare camici bianchi si offre al massimo lo skypass anche a chi, magari, non è capace di sciare. Altre latitudini e altra classe politica. Che privilegia la sanità più dei concerti rock. A proposito: ma lor signori sono mai andati, come pazienti “anonimi” e mascherina sul volto, in un Pronto soccorso di ospedale, in Trentino? Ci vadano che è sempre un’utile lezione. Soprattutto per coloro che ambiscono a essere i “meglio fichi del bigoncio”.