Quando i trentini erano gente seria non servivano firme su un documento. Bastava la parola. Oggi che l’autonomia “speciale” è stata ridotta a strapuntino di Roma (di quella “Roma ladrona” che i padani della prima ora urlavano nelle piazze e per le vie. Ricordate?) che cosa volete che sia strapazzare una signora fino a renderla zimbello delle sue ambizioni? Codesta è la serietà degli inquilini del Palazzo chiamati a governare e inebriati dal successo elettorale. Lor signori non governano, comandano. E vien quasi da sorridere, se la questione non fosse troppo seria, al pensiero che i numeri primi intendono imporre le loro decisioni a chi, orfano dell’unto dalla Provvidenza, vagheggia la donna sola al comando. O almeno al vice comando.
È difficile e indigesto pensare a come il Trentino, nella sua partita a scacchi con le Istituzioni, sia riuscito da solo a darsi scacco al re. Adesso si trova in un tunnel, al buio, senza grandi possibilità di un’uscita dignitosa. Di noi, della nostra “speciale” autonomia (da che?) parla tutta l’Italia e non solo politica. Siamo indicati come i protagonisti di una autonomia malata, bizzarra, di indigestione da eccessivo e confuso centrodestra, non so se fermentato e andato a male, certamente mal condito e mal cucinato.
Eppure gli avvisi e le raccomandazioni ai commensali invitati al banchetto elettorale erano chiare: il pericolo di una abbuffata da perigliose conseguenze digestive. Chi ha orecchi e non ha ancora bisogno di apparati d’ausilio, ha sentito bene come la promessa di pace e il ramoscello d’olivo siano arrivati dopo un duro braccio di ferro. Tuttavia, assieme alla parola “fine delle beghe da cortile” abbiamo udito tutti la pubblica promessa di una vicepresidenza femminile e “fascista” per la signora con ambizioni bulimiche. Fino a quel momento determinata a correre da sola; con benedizione e mandato nazionali; con sondaggi lusinghieri, anche se si paventava il pericolo, certo, che due blocchi di destra entrambi forti sarebbero stati singolarmente perdenti. La fine del pre-conflitto e la pace siglata, comportava la presidenza a Fugatti e la vice presidenza a Gerosa. Sotterrate le armi, pancia a terra ed ambizioni personali rimesse in cantina ad invecchiare.
Le elezioni hanno confermato che l’unità poteva essere vincente, ma hanno fatto emergere le furbizie dei più furbi del bigoncio, i quali, giocando su più tavoli, hanno messo in scena quel desiderio, tenuto nascosto per tutta la campagna elettorale. E cioé che per vicepresidente serviva più un amico che un alleato. Serviva un erede pro futuro più che una socia per il presente. Ne è scaturita una rappresentazione filodrammatica, in salsa trentina, di sicuro successo al botteghino.
Anche nei teatri della politica italiana è stato messo in scena lo spettacolo dal titolo esplicativo: “Finita la festa erosa Gerosa”. Ai cui danni si è consumato fuor di dubbio uno sgarbo. Anche gente per bene dell’altro schieramento non può non capire l’indignazione per lo smacco della assessora-consigliera Gerosa. Pur senza nutrire simpatie per i vincenti dell’urna e vista la saga post voto, con un reiterato dileggio delle regole e dei principi di serietà, vien da dire che rivendicare quanto promesso e quanto è stato oggetto di un accordo, può essere un valido motivo per sentirsi risentiti. La storia rammenta, fin dai tempi dei latini, che “pacta sunt servanda”, gli accordi vanno mantenuti. E le promesse elettorali, pure. Ma di quanto e come gli elettori si stanno già accorgendo.