Settant’anni fa arrivò in Cile il primo gruppo di famiglie trentine che avevano aderito all’offerta di un pezzo di terra da coltivare e di un avvenire meno difficile di quello che si prospettava negli anni Cinquanta nei paesi delle valli Trentine.
Giorgio Panizza, sua moglie Armida Zambotti e quattro figli, arrivarono in Italia l’8 aprile 1973. Avevano lasciato in Cile 120 ettari di terra, 30 capi di bestiame, tre case. Da tutta questa “fortuna” avevano ricavato 150 milioni di pesos, l’equivalente di trecentomila lire italiane, neanche i soldi sufficienti, in Italia, per comperare un fornello a gas. Erano una delle 87 famiglie rientrate nel Trentino tra il 1970 ed il 1973, pochi mesi prima del golpe militare del generale Pinochet. “Tornati a casa per paura e perché la crisi stava facendo precipitare la situazione. C’erano bande del MIR, il movimento per la riscossa rivoluzionaria, che saccheggiavano e minacciavano i proprietari terrieri”. E i Panizza, con i loro 120 ettari di terra, erano considerati latifondisti.
Armida Zambotti rievocò la partenza dall’Italia: “Era il 1952, ci avevano detto che in Cile c’erano grandi terre da coltivare e che si poteva far fortuna. In ottobre di quell’anno siamo partiti. Laggiù abbiamo trovato grandi appezzamenti di terreno, pieni di sassi e di sterpaglie. Abbiamo bruciato rovi per tre mesi, poi il terreno è diventato coltivabile. Si è lavorato sodo per vent’anni, eravamo riusciti ad avere qualche cosa ed ora siamo qui più poveri di quando siamo partiti”.
Era la primavera del 1973, al loro arrivo in Trentino i migranti “ex cileni” furono accolti con grandi promesse di atti riparatori perché un qualche rimorso, un latente senso di colpa per averli mandati allo sbaraglio vent’anni prima, i politici locali non se lo erano mai tolto di dosso. Dovettero passare altri due anni prima che la Provincia autonoma di Trento decretasse un indennizzo complessivo di 250 milioni di lire per le famiglie rientrate dal Cile più povere di quando erano partite.
Tutto era cominciato domenica 11 dicembre 1949. Quella mattina, il “Popolo Trentino”, diretto da Flaminio Piccoli (1915-2000), pubblicava la notizia che una commissione della Regione Trentino-Alto Adige stava per recarsi in Cile poiché quella nazione era interessata ad accogliere contadini italiani. Un mese dopo partì da Roma per il Sudamerica anche il deputato democristiano Renzo Helfer (1914-1991). Da Santiago, il parlamentare scrisse al “Popolo Trentino” una lettera nella quale prospettava le difficoltà della situazione: “Resta ben inteso – concludeva Helfer – che solo se avremo la certezza che si potrà giungere ad una organizzazione ottima per i coloni, sicché essi possano essere veramente protetti e non vadano all’avventura, riterremo di poter concludere”.
Conclusione vi fu se, nel febbraio del 1951, dopo aver elaborato il “Progetto Cile”, la Regione Trentino-Alto Adige diede il via al “reclutamento di 21 famiglie agricole trentine da inviare nel Cile a scopo di colonizzazione agricola”.
Tali famiglie avrebbero raggiunto la zona di “La Vega Sur de la Serena”, 420 ettari irrigui messi a disposizione dalla Cassa di colonizzazione cilena. Il piano finanziario (una fideiussione sulle rate di ammortamento dei coloni per un ammontare complessivo di 123 milioni di lire) fu approvato dal Consiglio regionale il 12 aprile 1951. Fu un voto quasi plebiscitario, con due soli contrari.
I 153 migranti, di venti famiglie, partirono alle 10.30 di mercoledì 18 aprile 1951, salutati alla stazione ferroviaria dall’arcivescovo Carlo de Ferrari (1885-1962), dall’ausiliare Oreste Rauzi (1888-1973), dal consiglio regionale al gran completo e da una folla di amici e parenti. Lacrime e fazzoletti, abbracci e auguri. Per la maggior parte, erano originari delle valli del Noce e della val di Cembra.
Fu un viaggio lungo, faticoso e a tratti drammatico, sul piroscafo “Vespucci”, durato ventinove giorni. Al loro sbarco, in Cile, cominciarono subito i problemi. L’acqua non era potabile; nelle “parcelle” c’era più sale che terra. Nel Trentino i giornali pubblicarono corrispondenze entusiasmanti: “Tutto bene”; “Vita feconda e serena dei coloni trentini in Cile”; “Soddisfatti i coloni; ci sarà posto per altre venti famiglie”. In tale clima di “gioia e felicità” e mentre si annunciava l’offerta di altre cento parcelle da parte del presidente del Cile, fra i trentini cominciarono a serpeggiare i dubbi e le perplessità. Mentre i giornali pubblicavano commenti improntati al successo della spedizione, ai parenti rimasti in patria i portalettere cominciarono a recapitare informazioni di ben altro tenore. Tuttavia, la prima emigrazione riuscì a trovare, sia pure con grandi sacrifici, un inserimento nella nuova realtà.
La seconda ondata, invece, preparata male e gestita peggio, si dimostrò un disastro. Al punto che la Giunta Regionale decise di inviare in Cile un osservatore sulla cui onestà ed imparzialità non vi fossero dubbi. Fu incaricato don Giorgio Cristofolini (1922-1993), allora assistente delle ACLI. Il sacerdote originario di Vigo Cavedine partì per il Cile il 14 marzo del 1953. Trovò una situazione disperata. Ricordò anni dopo: “Mancavano l’acqua potabile e l’energia elettrica; quando i trentini arrivarono in Cile, le case promesse non erano ancora pronte. I materassi dati loro dalla CITAL (la società italo-cilena per l’immigrazione in Cile) erano imbottiti di stracci sporchi, pezzi di spago e persino vecchie tomaie di scarpe”.
Ai coloni era stato garantito un prefinanziamento dallo Stato cileno finché fossero arrivati all’autosufficienza alimentare. Il denaro fu assegnato col contagocce. Avevano lasciato una situazione di povertà, trovarono la miseria.
Don Giorgio Cristofolini tornò a Trento dopo tre mesi con l’angoscia e la rabbia di chi aveva visto gente che malediceva il giorno in cui era nata; che piangeva i bambini morti di dissenteria, per mancanza d’acqua e per gli stenti. Raccontò di aver tolto, appena in tempo, il cappio dal collo di un uomo disperato che stava per impiccarsi.
Scrisse una corposa relazione per la Giunta Regionale: “Posso assicurare – testimoniò – che oltre il 50% delle famiglie da me avvicinate hanno imprecato contro il giorno della loro partenza dall’Italia e molte volte, con un nodo alla gola, mi hanno detto: se fossi in grado di affrontare le spese di viaggio, se non avessi venduto quel po’ di sostanza che avevo nel Trentino, tornerei a casa, in Italia”.
Tornarono vent’anni dopo. Con la convinzione di essere stati traditi. Vent’anni prima. Con la delusione di chi aveva visto bruciati vent’anni di vita in una terra soltanto promessa.
Su quella drammatica emigrazione ecco la scheda di Mauro Lando pubblicata nel “Dizionario Trentino” (1945-1975), edito da Curcu&Genovese nel 2008.
Emigrazione in Cile. Il lontano paese sudamericano, in particolare l’area di La Serena, sulla costa dell’oceano Pacifico, fu il luogo dove si consumò l’ultimo vasto dramma dell’emigrazione trentina. La data di inizio è quella del 18 aprile 1951 quando dalla stazione ferroviaria di Trento venti famiglie, supportate dalla Regione, partirono alla volta di La Serena in un progetto di emigrazione verso terre da colonizzare. Erano accompagnate dall’assistente sociale Maria Perazzolli, che si trattenne per qualche mese in Cile aiutando gli emigrati nel proprio insediamento. L’anno successivo, ed in più riprese, partirono altre 120 famiglie per un totale di 758 persone, in un’avventura che fu meno tutelata. Se la prima emigrazione portò a risultati soddisfacenti, la seconda fu un disastro soprattutto perché i terreni affidati ai coloni trentini erano largamente inadatti alla coltivazione e perché l’acqua per l’irrigazione non era sufficiente. In più, molti dei nuovi emigranti non avevano esperienze dirette in campo agricolo. In aggiunta a ciò, i finanziamenti che i coloni avevano avuto per iniziare a lavorare erano in dollari Usa e l’incalzante inflazione cilena rese problematica la restituzione dei capitali. La difficile situazione dei trentini ebbe ben presto, ed in più riprese, eco sulla stampa: a titolo di esempio va ricordato l’Alto Adige dell’11 marzo 1956 che raccolse una testimonianza di una famiglia di Foppiano in Vallarsa tornata dal Cile. “Abbiamo scavato la terra promessa, sabbia, giù e giù fino all’inferno”. Dopo i primi anni di stenti e difficoltà si ebbe una vera e propria diaspora sia all’interno del Cile che dell’America latina.
Seguirono polemiche ed interventi da parte della Regione in Cile prima con la presenza nel 1953 del sacerdote don Giorgio Cristofolini per seguire da vicino la comunità trentina, successivamente con l’azione dell’assessore regionale Armando Bertorelle che fu a La Serena nel 1955 per cercare una qualche soluzione ai casi più disperati.
Dopo vari rientri del 1955—56 la colonia trentina a La Serena diminuì di numero anche perché molte famiglie si trasferirono sia all’interno del Cile, sia dell’America Latina in generale. Rimase nella sede originaria chi invece era riuscito, a costo spesso di sacrifici colossali, a consolidare le coltivazioni o ad avviare altre attività economiche. Una nuova scossa arrivò nel 1972 con un nuovo flusso di rientri in Trentino. Le ragioni? Erano soprattutto due: la siccità ed il clima politico. L’Alto Adige del 26 maggio 1972 riportò le testimonianze dei rappresentati delle trenta famiglie che in quei mesi erano tornate e si erano ritrovate più in difficoltà di quanto erano partite venti anni prima. A La Serena, raccontarono, non pioveva da sei anni, il che mise in seria difficoltà l’agricoltura. Per quanto concerne il momento politico il giornale scrisse che le scelte del governo del presidente Savador Allende avevano colpito gli agricoltori per la fissazione dei prezzi politici dei prodotti della terra. A La Serena non vi erano state invece occupazioni delle terre perché gli emigrati trentini non erano certo latifondisti. “Dal Cile con rabbia” fu il titolo di quell’articolo. Alla Regione ed alla Provincia i trentini rientrati da La Serena chiedevano l’assistenza sanitaria e previdenziale, oltre ad un alloggio popolare, o la possibilità di accendere un mutuo che potesse aiutarli nell’acquistare una casa. Gli aiuti arrivarono: il 22 novembre 1972 il Consiglio regionale approvò “una leggina per i trentini che tornano dal Cile”. I rientri continuarono anche durante il 1973, mentre cessarono con il colpo di Stato del generale Augusto Pinochet dell’11 settembre 1973.
Dalla seconda metà degli anni Settanta, infine, la situazione per chi era rimasto a La Serena si è stabilizzata positivamente sia per il miglioramento generale della situazione economica cilena, sia per l’intervento della Provincia e della “Trentini nel mondo”.