D’accordo, il presidente del senato, l’avv. Ignazio Benito Maria La Russa, ha chiesto scusa per l’improvvida uscita nel corso di un’intervista di qualche giorno fa. Aveva dichiarato: “Via Rasella è stata una pagina tutt’altro che nobile della resistenza, quelli uccisi furono una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS, sapendo benissimo il rischio di rappresaglia su cittadini romani, antifascisti e non”. Ne è seguito un vespaio di polemiche che le scuse parrebbero aver smorzato, ma che bruciano sotto la cenere, come documenta la riflessione di Renzo Fracalossi.
È davvero sorprendente la rapidità con la quale ogni cosa viene archiviata da una memoria sempre più superficiale. Le polemiche si alzano con straordinaria virulenza e si placano con altrettanta incredibile velocità, come dimostra la fiammata di sdegno, già sopito, attorno alle improvvide dichiarazioni del Presidente del Senato della Repubblica sull’attentato partigiano del 23 marzo 1944 in via Rasella a Roma. Subito è andato in ebollizione un grande minestrone comunicativo che sembrava preludere a scenari inattesi. Invece, così come improvvisa si è alzata, la tempesta è venuta placandosi e tutto sembra già dimenticato.
Ma la memoria non può essere silenzio complice, né tanto meno inchino servile ed è per questa ragione che proviamo a rialzare lo sguardo su quelle dichiarazioni e le loro implicanze. Davanti ad una così evidente distorsione della verità storica come quella messa in atto dalla seconda carica dello Stato che per sua stessa natura sarebbe tenuta più d’altri a comportamenti corretti e sobri, viene spontaneo anzitutto chiedersi: “cui prodest?”
Ignazio La Russa, dietro la sua maschera luciferina e un po’ guascona, non è affatto uno sprovveduto, né uno sciocco, ma è senza dubbio in malafede quando afferma che il reparto tedesco vittima dell’attentato altro non era se non un gruppo di musicisti/coristi alle soglie della pensione e perciò quel gesto, sulla cui utilità e senso si può ancora discutere a lungo, fu un atto inglorioso e, in buona sostanza, indegno. La Russa sa benissimo di aver detto una bestialità – al punto che nei giorni seguenti si scusa – ma proprio il fatto di averla messa in circolazione è riprova del perseguimento di un disegno politico e culturale volto, quanto meno, alla riscrittura della storia più recente e non solo.
Non sono un complottista e rifuggo dall’idea che dietro ogni cosa vi sia sempre un “manovratore occulto”: so infatti dove portano simili teorie. Eppure qui non si tratta della gaffe di un incontinente verbale, bensì del deliberato tentativo di edulcorare la vicenda storica, trasformando il carnefice in vittima e quindi rovesciando la verità ad esclusivo vantaggio proprio ed a beneficio di molti ignoranti e di adulatori acritici.
Forse qualche approfondimento potrebbe aiutare a fare un po’ di luce.
Chi osserva oggi, con attenzione, gli “ex voto” nel santuario di Pietralba/Weissenstein troverà una piccola fotografia di un gruppo di anziani. Si tratta di un’immagine degli anni Settanta del secolo scorso, scattata in un luogo di fede e che ritrae i pochi reduci ancora sopravvissuti a quell’attentato.
Quarant’anni prima quegli uomini, – che vestivano le divise color verde delle unità di Polizia anziché quelle grigie delle Waffen SS – appartenevano all’ 11.a Compagnia del III Battaglione del “Polizeiregiment Bozen” in servizio di ordine pubblico, quindi anche di repressione antipartigiana ed operante nella capitale dal febbraio del ‘44. Il III Battaglione era composto da tre Compagnie: la 9.a dislocata nel paese di Albano a sud di Roma; la 10.a con compiti di sorveglianza armata ai comandi tedeschi ed al Vaticano e l’11.a ancora impegnata in addestramento. Quel giorno infatti, agli ordini del sottotenente Wohlgast, l’11.a Compagnia stava rientrando da esercitazioni svolte al poligono di tiro (e non da prove di coro, signor Presidente del Senato).
Non si trattava di truppe scelte e men che meno fresche. I soldati erano tutti sudtirolesi, in una fascia di età ricompresa fra i 25 ed il 45 anni con una media di 38 anni e ben lontani quindi da qualsiasi “semi-pensione”. Ragazzi e uomini maturi assegnati a quei Battaglioni di Polizia tedesca che, nelle vicende belliche, avevano assunto funzioni diverse e variegate: dall’ordine pubblico al rastrellamento e deportazione degli ebrei, al combattimento in linea. A questi compiti servivano i “Polizeiregiment” nazisti (e non ad addestrare bandisti e coristi, come ben sa il Presidente La Russa). Fino al settembre del 1943 nei reparti assegnati all’occupazione dell’Italia, venivano reclutati solo gli “Optanten”, cioè coloro che avevano scelto la cittadinanza tedesca in base agli accordi sulle “Opzioni” del 1939 fra Hitler e Mussolini per la popolazione tedescofona dell’Alto-Adige. Con l’occupazione nazista dell’Italia, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, l’arruolamento diventò obbligatorio anche per i “Dableiber”, ovvero quelli che “erano rimasti” e che giuridicamente erano ancora cittadini italiani. Fra costoro i volontari furono pochissimi. Ricordava in proposito Arthur Atz di Caldaro: “Sono un contadino e cittadino italiano e ho fatto il militare nel ‘39 in Sardegna. Dopo sono tornato a casa. Nel ‘43 ho dovuto andare a fare il soldato tedesco (che è cosa ben diversa dal fare il corista n.d.r.) e siamo andati a Bolzano. Siamo stati in caserma e dopo siamo andati a Roma. Lì eravamo tre mesi e avevamo l’attentato il 23 marzo ‘44 e dopo siamo andati in Piemonte. Abbiamo dovuto fare sempre guardie, perché erano tutti partigiani sulle montagne. Quando la guerra era finita sono andato in prigionia sotto gli americani e dopo sono tornato a casa.” (da: “L’ordine è già stato eseguito” di A. Portelli – Ed. Feltrinelli – pag. 202).
Gli uomini dell’11.a Compagnia, come Atz, dovevano completare l’addestramento e per raggiungere le aree di esercizio, venivano fatti marciare per le vie cittadine, con l’ordine di cantare. Rammenta Franz Bertagnolli, un altro soldato: “Pretendevano che noi sfilassimo per le strade sempre cantando a squarciagola, come tanti galli, petto in fuori e urlare in continuazione un cadenzato chicchiricchì.” (idem – pag. 203). In realtà, quel canto aveva una specifica funzione di intimidazione e di veicolazione di un messaggio di prepotenza e di spavalderia, che l’occupante esibiva sull’occupato ed anche questo depone in favore dell’evidenza: quel reparto che transitava per via Rasella il 23 marzo 1944 era composto da soldati in divisa del III Reich, operanti in una città straniera e nemica. Di questo si tratta e non di una simpatica riunione di arzilli canterini, come invece prova ad accreditare la falsa interpretazione offerta dal Presidente del Senato.
Certo, si trattava di altoatesini di lingua tedesca arruolati controvoglia, tutti profondamente cattolici e scarsamente bellicosi, al punto che la rappresaglia che secondo le tradizioni militari germaniche andava affidata al reparto colpito, venne lasciata ad altre truppe, secondo le stesse indicazioni dell’ufficiale in comando, il maggiore Helmuth Dobbrick, che giudicava i suoi uomini incapaci di procedere con le esecuzioni perché troppo animati da sentimenti religiosi. Per inciso va peraltro ricordato che al massacro delle Fosse Ardeatine parteciparono parecchi altri sudtirolesi, come Gunther Amonn e Wilhelm Kofler, mossi da minori scrupoli e da maggior adesione al nazismo, come ricorda il maggiore Kappler nelle sue deposizioni processuali.
Questa è la storia. Il resto sono fuorvianti interpretazioni, esibite solo a fini di consenso politico e di manipolazione della memoria e della sua trasmissione. Forse il Presidente del Senato avrebbe potuto evidenziare invece lo straordinario episodio resistenziale, troppo spesso taciuto, e relativo al “Polizeiregiment Brixen”, gemello del “Bozen”, che rifiutò di giurare fedeltà ad Hitler, in nome del proprio credo cristiano. Inviato al fronte russo per punizione, il “Brixen” fu massacrato. Non tornò quasi nessuno. Ma questa vicenda non serve ai fini del Presidente La Russa e di tutti coloro che stanno rimaneggiando le verità, negando i fatti occorsi e rileggendo, in chiave riabilitativa, l’intera pagina del fascismo.
Ignazio La Russa ha scelto, con le sue improvvisazioni, di avvalorare il sempre più concreto dubbio sul disegno in atto: “Il fascismo ha fatto molte cose buone e ha reso grande l’Italia” (salvo averla governata con la violenza di una dittatura ventennale, per poi distruggerla in una guerra assurda); “le vittime delle Ardeatine sono state uccise perché italiane” (dimenticando volutamente che si trattava comunque di antifascisti, di ebrei e anche di stranieri); “gli uomini del “Bozen” erano solo musicisti attempati in gita a Roma” (anziché soldati in armi dell’occupante nazista). Nella fretta del presente, tutto si dimentica ed anche queste frasi, che in altri tempi avrebbero mosso le piazze, vengono già archiviate nel dimenticatoio di una memoria smemorata. È così che la lezione della storia passa invano.
E la prossima boutade su che cosa mentirà?
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