Fine di Carnevale con il pino di Grauno che la sera del martedì grasso ha rischiarato la notte dell’alta val di Cembra. Una settimana di appuntamenti nei villaggi e nelle valli, all’ombra dei campanili, che hanno frantumato, almeno in questa occasione (“semel in anno licet insanire”, dicevano i latini), le fusioni obbligate e favorite dalla riforma istituzionale del 2014 (presidente della Giunta Ugo Rossi; assessore alla coesione territoriale Carlo Daldoss).
È servito il carnevale per chiarire, se qualcuno avesse ancora dubbi, che le fusioni non hanno raggiunto pienamente lo scopo che il legislatore si era stabilito: risparmio di spese e maggiore coesione sociale. Alla luce dei risultati, la sensazione è che né l’uno né l’altra siano stati obiettivi centrati. Tant’è che chi non aveva aderito alla fusione proposta, optando per una gestione condivisa dei servizi (valga l’esempio di Segonzano-Sover e Lona-Lases), dopo una sperimentazione accidentata ha fatto marcia indietro.
Che cosa c’entra il carnevale? Poco e tanto, al tempo stesso, come cercheremo di chiarire. Le singole comunità dei comuni “fusi” in un’unica amministrazione, a carnevale si sono organizzate per “fare da sé”. Chi ha messo in piedi il “Carnevàl a Teai”, chi “la sbigolada a Sevignano”, chi “El carneval de Salet”. Grauno, tanto per restare in Val di Cembra, ha mantenuto il “proprio” carnevale secolare. Così come Valda o Grumes. Quest’ultimo villaggio punterà i riflettori e richiamerà l’attenzione degli antropologi fra dieci giorni con il “Trato marzo”. Un tratto distintivo di codesta micro-comunità che ha saputo resistere alla globalizzazione delle appartenenze. Perché Altavalle sarà pure un comune unico, ma i campanili sono rimasti quattro. Con quello di Faver che il 14 febbraio non ha potuto nemmeno annunciare la plurisecolare festa e la processione (annullata) di S. Valentino. Il crollo di un fregio di gesso dalla volta della cupola sull’altare della parrocchiale ha spostato gli appuntamenti del culto cattolico a Cembra. Sotto un altro campanile e in un differente comune.
A tale proposito, pur di fronte al crollo di preti e di vocazioni, la Chiesa (che ne sa una più del diavolo) ha mantenuto operative tutte le “cure d’anime” della valle. Un paese, una parrocchia: anche se con un unico titolare costretto a farsi in dodici, quante sono le parrocchie dei sette comuni della val di Cembra.
Mutatis mutandis, sarebbe come se, invece di accorpare più comuni in un’unica amministrazione, si fossero lasciati i consigli comunali sotto il medesimo sindaco. In verità è ciò che avrebbero dovuto o dovrebbero fare le Comunità territoriali di Valle, eredi dei Comprensori di “Kessleriana” memoria. Le quali, a tutt’oggi, sono senza un’identità ben definita. Per scomodare Dante: “Come nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello”!
Scriveva (marzo 2015) l’allora presidente, Ugo Rossi, su “Il Trentino”, la rivista della Provincia autonoma di Trento: “Sono molti i motivi che dovrebbero spingere le comunità municipali a fondersi con le “sorelle” vicine per dar vita a un Comune unico. La nuova realtà istituzionale avrebbe maggior peso specifico sia all’interno della Comunità di Valle, sia più voce in capitolo sul panorama provinciale; si potrebbero finalmente realizzare quelle razionalizzazioni e ottimizzazioni nell’impiego di danaro pubblico per migliorare l’organizzazione burocratica a servizio del cittadino; i servizi sarebbero meglio curati perché si rivolgerebbero a bacini di potenziali utenti ben maggiori; si ridurrebbero indennità e gettoni di presenza per i rappresentanti eletti; infine, almeno in questa fase iniziale, i nuovi Comuni unici potrebbero godere di particolari incentivazioni e di contributi da parte di Regione e Provincia”.
Ancora: “Se andassero a buon fine tutti i referendum che si terranno entro il prossimo 31 luglio 2015, dal primo gennaio 2016 partirebbero 19 nuovi Comuni unici e in Trentino le municipalità passerebbero dalle attuali 208 a 172. Sarebbe una vittoria di civiltà e una prova di maturità che darebbe nuova linfa, rinnovate motivazioni e speranze alla realizzazione della terza fase della nostra Autonomia provinciale”.
Il “sogno” di Rossi ha ridotto i comuni trentini a 166. Ma alla luce dei risultati e dei risparmi non intervenuti, per taluni amministratori quel sogno si è trasformato in incubo. Certo, ci sono comuni in crisi di volontari-amministratori. Come Lona-Lases, dove da anni non si riesce a trovare un candidato disposto a fare il sindaco. Ma al centro c’è pure una classe politica pasticciona e senza una visione che non sia la contingenza delle urne prossime venture.
Basta guardare al miserello balletto che va in scena in questi giorni in casa autonomista o proclamata tale. Con il navigato ex senatore anauniese, Panizza, che non disdegnerebbe legarsi alla Lega. La quale ambirebbe far nozze con i fratelli (?) d’Italia per garantirsi e garantire (Fugatti dux) le poltrone prossime venture nel palazzo delle aquile. Per contro, altri sedicenti autonomisti abbandonano lo scranno delle stelle alpine a palazzo Thun, a Trento, richiamati come falene nel fascio di luce di “campo base”. In questo tiro alla fune non è escluso che gli elettori di fede autonomista-trentino-tirolese taglino la corda. E decidano di disertare le urne. Che non è proprio il viatico per uscire dalla deresponsabilizzazione di questi anni tempestosi.
Stendiamo un velo e sospendiamo il giudizio sul Pd, in attesa del congresso al quale i nostalgici di una sinistra solidale guardano nella speranza di individuare un barlume di identità perduta e di credibilità smarrita. Prima che un “cupio dissolvi”, come il rogo del pino del carnevale di Grauno, si trasformi nella cenere di una Quaresima che potrebbe durare ben oltre i quaranta giorni del calendario.