C’è un museo che molti Trentini ignorano e c’è una Fondazione che fa della memoria i pilastri dell’autonomia del Trentino, spesso contrastata e scarsamente difesa da chi dovrebbe conoscere la Storia. Quella che ha portato il Trentino ad essere italiana come terra oltre che di lingua. Alla fine della Grande guerra cominciò a prendere forma l’idea (peraltro già auspicata da Cesare Battisti) di dare al Trentino un luogo dove raccogliere i cimeli e i documenti di una lunga lotta per l’autonomia. Il prof. Vincenzo Calì ha delineato quella storia in alcune puntate che sono affidate a questo strumento liquido di informazione e di memoria.
La storia del Museo trentino del Risorgimento, stesa da Bice Rizzi in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione (correva l’anno 1973), non poteva che iniziare con un richiamo agli intendimenti che erano stati espressi da Cesare Battisti al sorgere del XX secolo. In un articolo per il settimanale «Vita trentina» il socialista trentino, insieme all’apprezzamento per la mostra di cimeli allestita al museo del Risorgimento di Milano, aveva sottolineato come anche “Milano fosse stata a sua volta imitata: “Varie città della Lombardia hanno fatto o si accingono a fare altrettanto. in tutti questi musei, sia che si esaminino i reperti che riguardano l’epica storia che va dal 1848 al 1866, sia la preistoria dei movimenti nazionali italiani in sul finire del secolo XVIII e all’esordio del XIX, ricorrono frequenti i ricordi del paese nostro. Talché viene spontanea l’idea: e perché non si potrebbero raccogliere nel Trentino nostro queste memorie? perché non potrebbe sorgere tra noi un museo col modesto titolo di museo storico del secolo XIX?».
Battisti ritornò più volte in seguito sull’argomento, arrivando nel 1907 a meglio precisare la proposta sulla rivista Tridentum: “Esprimo un voto: che presto si formi nel paese nostro un comitato che curi la fondazione di un museo storico trentino del secolo XIX affidandone poi la conservazione al comune di Trento: ci sono in molte famiglie cimeli preziosi, lettere, proclami, armi, oggetti di vario genere che meritano di essere conosciuti, illustrati e conservati”.
Fu effettivamente dalle collezioni, destinate al castello del Buonconsiglio che nel biennio postbellico prese vita, erede dell’ottocentesco museo civico di Trento dalle alterne fortune, il “museo di Bice Rizzi”, così chiamato per l’impronta personale datagli da chi ne fu l’anima per mezzo secolo e oltre. Ci volle infatti la sua fermezza di carattere per riuscire ad approntare le difese di un mondo di valori, quello risorgimentale, che aveva rischiato di crollare sotto la violenza nazifascista nel pieno del secondo conflitto mondiale (scrisse la Rizzi: “Quella guerra combattuta con ben altro spirito e per ben altri ideali di quella che venne poi…”).
Un‘identità nazionale fragile quella italiana, costruita ancora sui miti di sangue e suolo, destinata a sgretolarsi al soffiare dei primi venti impetuosi, da cui l’esigenza di creare luoghi di formazione; quello che era stato il citato auspicio anteguerra di Cesare Battisti se trovò una risposta nel luglio del 1919, fu in un contesto assai diverso da quello che i patrioti trentini avevano sognato lungo l’arco del secolo di dominazione asburgica che aveva preso il via con la secolarizzazione del principato vescovile di Trento.
Già nel primo conflitto mondiale lo scenario non era stato quello di una quarta guerra del risorgimento, con l’unione del Trentino all’Italia come ultimo tassello del processo risorgimentale, bensì quello che lo stesso Battisti aveva lucidamente descritto nell’ultima lettera, inviata al figlio Luigi dal Corno di Vallarsa, la “montagnaccia infame” che avrebbe preso il suo nome: “La guerra riduce e più ridurrà il nostro trentino un deserto e un cimitero. Sono i giovani come te che devono prepararsi a ricostruirlo”.
Uno scenario da guerre di conquista, col Trentino “zona nera” in un’Europa in macerie, passata da faro del progresso a sentina di tutti i mali, avviata, causa i veleni della guerra, verso i totalitarismi, condannandosi così alla marginalità geopolitica. È in questo contesto come ha scritto Leo Valiani (1985) che va inquadrata la dissoluzione dell’impero austroungarico e la conseguente annessione del Trentino all’Italia. La questione all’ordine del giorno era, per il Trentino, come ha osservato Quinto Antonelli, quella di “ricomporre le famiglie e le comunità lacerate dai lutti e dalle traversie della guerra; di riprendere il corso di una vita che per tutti era passata attraverso durissime prove e tensioni”. Lontano da queste argomentazioni, il comitato per il museo di Trento nacque nel luglio 1919, sotto l’egida del governatorato militare di Pecori Giraldi, a poche settimane dal conchiuso della conferenza di pace dal quale, come osservava in una sua relazione il commissario civile di Bressanone Francesco Gottardi, “si evince che l’Alto Adige è definitivamente assegnato all’Italia fino al Brennero” (leggiamo, ancora dalla relazione del commissario Gottardi, il quale alla popolazione di Bressanone che chiedeva di “poter tenere un comizio di protesta contro la pace ‘di violenza’”, si rispose con un diniego). È sotto l’ipoteca di una annessione manu militari estesa fino al Brennero e oltre, che vide la luce il progetto trentino per la conservazione delle “sante memorie risorgimentali” dentro il castello del Buonconsiglio, ex caserma austriaca passata nel frattempo sotto la provvisoria giurisdizione del governatorato militare.
Ai “patrioti senza patria” – che tali avrebbero potuto definirsi i trentini che avevano attivamente partecipato come volontari nell’esercito italiano al conflitto mondiale – veniva così assegnato prioritariamente il compito di milites confinarii, ed è significativo al riguardo, come ricordato da Sergio Benvenuti, che in attesa dell’agibilità delle sale del castello, la prima mostra itinerante, allestita nella sala della filarmonica nel 1919, fosse interamente dedicata alla partecipazione dei volontari trentini caduti nella grande guerra. Il comitato provvisorio per la nascita di un Museo del Risorgimento nazionale si costituì, sotto la presidenza di Vittorio Zippel, il quale nel 1915 era stato estromesso dalle autorità austriache dalla carica di podestà di Trento. Quel nome, certamente meno modesto di quello auspicato da Battisti, trovava giustificazione proprio nel profilo biografico del geografo trentino che si era volontariamente sacrificato per l’unione di Trento all’Italia.
All’appello del “Comitato dei dieci” in molti risposero e il materiale per la costituzione del nuovo museo, a cominciare da una parte delle raccolte del vecchio museo civico di Trento, affluì abbondante al castello del Buonconsiglio, nelle cui sale, per decisione unanime, il museo era destinato a nascere.
Nel frattempo in via Oss Mazzurana, in una stanza di pochi metri quadrati, con il concorso della legione trentina e del suo presidente, l’ing. Bruno Bonfioli, nasceva l’ufficio diretto da Bice Rizzi, ufficio che si trasferì nell’ottobre del 1922, e sempre in una sala di pochi metri quadrati, in Castelvecchio, dove rimase fino al trasloco del museo nelle ex-Marangonerie, sul finire degli anni Settanta.
(1 – Continua)