Se ne è andato a 90 anni, compiuti il 25 aprile scorso, Marco Berlanda, uno dei pittori trentini che hanno attraverso il mondo dell’arte come un gioco. La sua lucida follia di perenne bambino tra colori e pennelli, lo ha elettrizzato (fu a lungo dipendente dell’Enel) fin dalla più giovane età. Tuttavia si è potuto esprimere soltanto in età avanzata, dopo il funerale della madre che, memore di un congiunto, a suo dire “sviato dall’arte”, voleva evitare, fin che possibile, al figlio analogo destino. Marco Berlanda era il papà-bambino di Simone, già effervescente direttore della libreria “Artigianelli” di Trento, oggi curatore delle edizioni librarie di “Vita Trentina editrice”.
A 80 anni tenne una sua mostra personale a Parigi (dal 14 ottbre al 19 novembre 2011 alla galleria Christian Berst) città che aveva visitato per la prima volta proprio in occasione della mostra. E per la prima volta aveva preso un aereo, era salito su una metropolitana, aveva visitato i musei dell’arte e si era aggirato, stupito e incantato come un bambino, tra Montmartre e Pigalle.
Ebbene, lo psichiatra Claudio Agostini, dirigente medico del centro di salute mentale di Trento, che lo aveva scoperto molti anni prima “annusando” un dipinto a olio esposto nella vetrina della Sat, definiva Marco Berlanda “un essere assolutamente balzano e ingovernabile” ma che, a suo giudizio, era uno dei più grandi pittori trentini del Novecento, dopo Polo.
Qui non fa premio l’affetto quasi filiale che lo psichiatra nutriva per l’artista, anche perché il dottor Agostini non è per nulla uno sprovveduto in fatto d’arte. Per anni è stato socio della galleria veronese “Fuori norma”, è amico di galleristi e pittori blasonati in tutta Europa. Marco Berlanda gli piaceva davvero. Di lui e della sua opera usava aggettivi come “sprezzante, anarchico, indomito, sornione, sfacciato, sorridente, dolente. Potente, eversivo”. Dopo aver visto il dipinto esposto alla Sat, Agostini disse che aveva “incontrato l’uomo prima ancora di conoscerlo”.
Andò a cercare l’artista. Lo trovò nell’«antro» delle Androne, una bottega con un «casino bestiale» dove erano impilate cinquantamila diapositive. Ci fu un periodo, infatti, in cui Marco Berlanda fotografava di tutto, di più, per paura di perdere i dettagli della realtà. “L’odore di vernice, di colla, di brodaglie a lui solo note, si era impresso nei miei sensi. Credo – rivelava lo psichiatra – potrei riconoscere una tela di Berlanda con il solo fiuto”. Ancora: “Talvolta, d’inverno, quando il gelo gli impone di tenere l’uscio dell’antro tappato, suono il campanello con una certa apprensione, temendo di far saltare tutto per aria o di trovarlo svenuto fra le esalazioni dei suoi intrugli”.
Marco Berlanda va iscritto a quella categoria di artisti di «art brut» (letteralmente: arte grezza), autodidatti o psicotici che solo nella tavolozza riescono a liberare la loro ossessione. Jean Dubuffet elaborò il concetto di «art brut» nel 1945; in Inghilterra (1972) fu coniato il termine di «Outsider Art» per definire la produzione di quei pittori che non hanno contatti con le istituzioni tradizionali del mondo artistico.
Il nostro cominciò tardi a usare i pennelli e la vernice (rossa, per la prima stesura e poi nuovi strati fino a coprire più volte il guizzo iniziale). Dovette aspettare la morte di sua madre per essere libero, finalmente, di darsi all’arte. La povera donna, infatti, lo aveva ricattato per tutta la vita: “Se dipingi avrò vergogna a uscire dalla porta di casa”.
C’era, in verità, una ragione tenuta nascosta ai più. Molti anni prima, uno zio un po’ artistoide aveva mandato in malora la famiglia. E così, il giovane Berlanda era stato costretto a imprigionare il suo talento e a doversi accontentare di un mestiere da “travet” all’Enel. “Anni difficili, raccontava la Rita (sua moglie), anni di ombrosa scontrosità, alle soglie forse della patologia”. E lo psichiatra Agostini: “Così, quando la madre, morente, non sarà più in grado di scandalizzarsi di fronte alla potenza del suo discorso pittorico, egli comincia a mettere le mani nelle vernici, nelle terre, a dar volto ai tanti incontri, storie, incontri del suo precedente girovagare terreno”. Insomma, dopo anni a lume di candela, soffocando quasi la fiammella dell’arte, è come se Marco Berlanda avesse potuto accendere una lampadina su se stesso. Morta la madre, in uno scantinato del centro storico riprese in mano le migliaia di diapositive accatastate in attesa della “liberazione” (lui, nato il 25 aprile), cominciando a ridisegnare e a dipingere tutto. Vernice su vernice, pennellata su pennellata.
Le opere esposte a Parigi facevano parte del primo periodo, probabilmente il più intenso perché, col passare degli anni, il suo tratto si è ingentilito e, dicono i critici (che di queste cose, talora, si intendono), ha perso un po’ la forza propulsiva. Ma l’animo bambino di Marco Berlanda è rimasto tale anche nel portamento. Osservava il medico Agostini che “quando il Berlanda è imbarazzato dondola, o meglio, saltella e canticchia sottovoce”.
Per le vie del centro lo si incontrava a tutte le ore, spesso in sella alla sua vetusta bicicletta, cappellaccio sulle ventitré, come un pittore bohemienne di inizio Novecento. A Parigi, naturalmente.
A proposito della Ville Lumière: quando, per la prima volta, scese nel metrò, Claudio Agostini gli aveva spiegato come avrebbe dovuto inserire il biglietto nell’apposita fessura e spingere il rondello per poter entrare. Cosa che Marco Berlanda aveva puntualmente eseguito. Sennonché, dopo aver girato con le mani il cancelletto, si era ritrovato al punto di partenza. Incurante dei pendolari dell’ora di punta, si era sdraiato per terra e, carponi, era passato sotto lo sbarramento. Non contento, si era fermato a metà cominciando a ululare come un cagnolino. Si era divertito come un matto. Meglio, come un ragazzaccio (di appena ottant’anni).
Bon voyage, piccolo principe del pennello e di un’infanzia durata novant’anni.