No, non è stata la ministra Azzolina con i suoi banchi a rotelle (rimasti in cantina) a rivoluzionare il mondo della scuola. E non sono state nemmeno le varie riforme che, dopo quella di Giovanni Gentile del 1923 (scuola obbligatoria fino a 14 anni), hanno messo mano alla materia. La rivoluzione fu avviata, 77 anni fa, da un ebreo ungherese, Lazlo Birò, il 29 ottobre 1945. Aveva osservato dei ragazzini che, per strada, giocavano con le biglie. Prese spunto da quelle sfere rotolanti per realizzare la penna che poi prese il suo nome: Biro.
Quando andammo a scuola noi – erano gli anni Cinquanta del secolo scorso – la penna a sfera era ancora oltre oceano, nei grandi magazzini di New York. Usavamo la penna intinta nel calamaio. Per evitare le macchie sulla maglia avevamo un grembiule e un manicotto nero che fasciava il braccio.
Guai a essere mancini. La mano sinistra, se usata per scrivere, avrebbe macchiato il foglio. E così molti ragazzini furono colpevolizzati da insegnanti arcigni, che li costringevano a usare la destra benché il loro cervello li portasse verso la mano sinistra.
A scuola avevamo una sola insegnante, austera, severa al punto giusto, alla quale, a differenza di oggi, si doveva rivolgersi con il “lei”. E se qualcuno (chi scrive potrebbe parlare con cognizione di causa) chiacchierava durante le lezioni, il castigo era garantito. Dopo la scuola, anziché tornare a casa, avrebbe dovuto imparare una poesia a memoria. E poiché l’Italia è fatta da un popolo di poeti (e naviganti) le poesie da imparare e i castighi da onorare non finivano mai. Con l’unico risultato, lo avremmo capito in età avanzata, di aver sviluppato una memoria ad ampio spettro.
Così andava il mondo nella scuola mnemonica finita nel tritacarne della contestazione studentesca del 1968.
Ecco, in questi giorni di metà settembre, riprendono le lezioni. Per gli scolari degli anni Cinquanta si cominciava il 1° ottobre. E non c’erano frotte di genitori che li accompagnavano fin sulla soglia dell’aula, e baci e abbracci come se i pargoli partissero per il fronte. Si avviavano verso la scuola da soli, o in compagnia dei coetanei, con una cartelletta di cartone, un quaderno e la penna da intingere nell’inchiostro. Nessuno sapeva leggere e scrivere prima delle elementari e così si cominciava a fare le aste, a tirare le righe diritte, a scrivere le lettere copiandole dall’abecedario (come quello di Pinocchio). La raccomandazione, reiterata più volte al giorno dalla maestra, era di non “fare le orecchie”, di non piegare i fogli; di fare attenzione a non macchiare il quaderno perché la goccia d’inchiostro era sempre in agguato.
A quel tempo, Lazlo Birò era ancora uno sconosciuto. A proposito: nonostante il successo planetario della sua invenzione, il genio della penna a sfera è morto in povertà, nel 1985, a Buenos Aires.
Le cattedre del sapere al tempo dei bisnonni
Se questa era la scuola della nostra infanzia, vediamo di rammentare quale fu l’istruzione elementare al tempo dei bisnonni.
La lavagna di ardesia, la cattedra sulla predella, i banchi di legno, il calamaio con l’inchiostro e l’asticella col pennino. Alla parete, una carta geografica del regno (e dell’impero), le lettere dell’alfabeto. In un angolo la stufa che doveva essere alimentata con la legna portata da casa direttamente dagli alunni. I quali calzavano zoccoli di legno: “dàlmedre” o “sgàlmere”, secondo la parlata che differiva da valle a valle. Si cominciava con le “aste” e si finiva con lezioni di “bella calligrafia”. I bambini dovevano imparare a “leggere, scrivere e far di conto”, così come previsto fin dal Regolamento Scolastico Generale (6 dicembre 1774) di Maria Teresa d’Austria per la “Trivialschule”, la scuola “triviale” o “comune”.
In poco più di dieci anni, sul finire del Settecento illuminista, nel solo Tirolo italiano, l’attuale Trentino, furono avviate 69 scuole “triviali”. Da quelle scuole, i figli del popolo dovevano uscire con una “mentalità onesta, sensata e lucida”. In campagna, dai 6 agli 8 anni, i figli dei contadini, dovevano frequentare la scuola estiva (da Pasqua a fine settembre); tra gli 8 e i 12 anni erano obbligati a seguire le lezioni invernali (dicembre-marzo) per poter poi dare una mano nel lavoro dei campi.
Nel Tirolo meridionale, i testi scolastici erano pubblicati da Marchesani di Rovereto. Agli indigenti erano forniti gratuitamente. Gli insegnanti erano per lo più i preti ai quali era riconosciuto un compenso. Oltre alla scuola “triviale”, l’ordinamento teresiano contemplava per i centri maggiori una scuola “ordinaria” o “principale” (“Hauptschule”), e, nel capoluogo della regione, una scuola “normale” (“Normalhauptschule”). Per il Trentino fu avviata a Rovereto.
Alla fine del XVIII secolo, nelle scuole “triviali” del Circolo di Rovereto operavano 92 insegnanti. Ogni classe era formata da una novantina di alunni. Nel 1853 a Bolentina, in val di Sole, furono stipati in uno stanzone 88 scolari. A Strigno (1786) era stata segnalata una classe con 145 bambini.
Una circolare del 1817 dell’Imperial Regio Capitanato di Trento stabiliva che “In istanza debbono stare ordinariamente 80 scolari; un maestro solo può avere anche 110-120 scolari”. Finita la scuola primaria si passava alla “scuola di ripetizione”. Nella relazione seguita all’ispezione del 1853, in val di Sole, si scrisse: “La scuola di ripetizione è tenuta regolarmente tutte le domeniche, dalle 3 alle 4. Gli obbligati sono fanciulli 16, di questi i mancanti sono 6 che emigrarono nell’autunno recandosi nell’Italia al travaglio (lavoro)”.
La memoria delle cattedre del sapere, dell’istruzione nei villaggi del Trentino, è conservata in cinque musei della scuola. A Pergine Valsugana è stato realizzato (1997) dagli insegnanti delle elementari “don Milani” (presidente la dirigente scolastica Maurizia Manto). A Rango, il museo della scuola, allestito (2001) per iniziativa di Tomaso Iori, “racconta” le pluriclassi dei bambini del Bleggio. Erano attive a Madice, Santa Croce, alla Quadra (Larido), a Rango-Balbido e a Cavrasto.
A Siror, nel Primiero, è stato ideato (2018) dai maestri Flavio Taufer e Pietro Depaoli. A Telve di Sopra, il museo etnografico, scaturito dalla donazione di oltre duemila oggetti “de sti ani” da parte di Tarcisio Trentin, ha riservato un angolo alla scuola e ai giochi legati all’infanzia.
Nel Trentino meridionale, a Riva di Vallarsa, il museo etnografico (1996) dedica un intero fabbricato alla scuola che fu. È uno dei quattro siti, compreso il molino di Arlanch, nei quali si sviluppa il “Museo della civiltà contadina della Vallarsa” (presidente la prof. Giuseppina Daniele).
Del resto, nelle valli del Leno, le scuole “triviali” erano numerose quasi quanto gli abitati. Nel 1889, in Vallarsa, (45 villaggi o masi sparsi, con 3.480 abitanti) l’istruzione primaria era impartita in tredici edifici, da dieci maestri e da tre maestre. Gli alunni erano 620.
In val di Terragnolo, che nel 1896 contava 2.395 abitanti, al principio del XX secolo gli alunni erano 320. Quasi tutti lamentavano problemi di salute. Gli anemici erano 132; 41 erano soggetti a vomito; 31 avevano ricorrenti mal di pancia; 51 accusavano un persistente mal di testa; 58 erano affetti da pellagra conclamata.
La maggior parte della popolazione risultava carente di vitamine del gruppo “B”. Si mangiava polenta senza alcun condimento, poiché le donne di Terragnolo scambiavano le uova e la verdura, sulla piazza di Rovereto, con sacchi di farina di mais. Nei casi gravi, la pellagra portava alla pazzia. Per tale ragione e per interessamento del medico roveretano Guido de Probizer, nel 1904 il governo regionale di Innsbruck emanò una legge per contrastare la diffusione della pellagra. Con essa fu istituita la mensa scolastica, furono finanziati i forni per la cottura del pane e l’allestimento di fontane con l’acqua potabile. Fu proibito il consumo esclusivo di cibo con farina di mais.
Nei mesi d’inverno, i bambini arrivavano a scuola infreddoliti e bagnati. E con tanta fame in corpo. Il 27 novembre 1905 la mensa scolastica di Terragnolo cominciò a fornire la refezione a 144 alunni della Piazza, resi gracili e macilenti dall’endemia. Poi toccò ai bambini che frequentavano le pluriclassi degli Zoreri, ai Geròli, agli Scottini, a San Nicolò. Alla Piazza, il centro della valle, confluivano gli alunni delle frazioni che distavano meno di mezz’ora di cammino: Valduga, Pedrazzi, Rovri, Dosso, Stediléri, Peltréri, Màureri, Pèrgheri, Campéri, Zéncheri, Lunèri, Valle, Puéchem e Chiesura.
Poi venne la guerra, la Vallarsa e la val di Terragnolo furono evacuate. I bambini in età scolare finirono, parte in Italia, molti nelle baracche di legno di Mitterndorf, nella bassa Austria.
Nel campo profughi c’erano 2.026 scolari suddivisi in 42 classi e furono costruite 24 aule scolastiche. Ma oltre mille bambini non frequentavano la scuola.
Il cimitero del campo si dimostrò ben presto troppo piccolo. Fu ampliato una prima volta (31 ottobre 1915) poi, quando anche l’ampliamento fu assorbito dai ripetuti funerali, nel febbraio del 1916 fu requisito un grande prato per dare sepoltura ai morti di tifo, dissenteria, stenti o vecchiaia. Vittime della guerra pure loro.
L’elenco dei 383 morti di Terragnolo, profughi in Austria, è custodito in un libricino conservato nel municipio a Piazza. Tra di loro figurano numerosi bambini morti per morbillo, difterite, catarro intestinale.
Nei villaggi del Bleggio, invece, erano state accolte intere famiglie sfollate dalla valle del Chiese. Nel museo della scuola di Rango sono conservati gli appunti della maestra Maria Tosi da Cavrasto: “Fino a subito dopo la [Grande] guerra, a Cavrasto convenivano anche quelli di Rango e Balbido da diversi anni. I piccoli sono sfruttati assai nel lavoro materiale. Credo che molto sia ed è di sicuro effetto della guerra. Qui v’è molta religiosità, ciò che non si nota così spiccata nel Lomaso e nel Banale”.
Il museo custodisce pure le cronache della scuola di Larido (1925): “Oggi [9 novembre] causa le aule non riscaldate non ci fu scuola”.
“4 dicembre 1925 – È venuto il sig. Direttore per visitare le classi. Le ha trovate vuote. Gli scolari erano stati mandati a casa perché i locali erano troppo poco riscaldati”. “23 dicembre – Causa il maltempo e le cattive strade sono tre giorni che mancano molti scolari alle lezioni; perciò l’insegnamento non può procedere del tutto regolarmente”.Cronache di ieri, di un dopoguerra faticoso.
Adesso si riprende. Con altrettanta incertezza: per la pandemia, la guerra nel cuore d’Europa e la crisi che non è soltanto del gas.