“Abbiamo sfiorato la storia e non ce ne siamo accorti. Maria Assunta ha riscattato agli occhi dell’Africa un’Italia che, negli ultimi anni, ha mostrato la faccia feroce dell’egoismo più che il sorriso della solidarietà. Lei ha aiutato per davvero gli africani a casa loro, a dispetto degli slogan di chi parla alla pancia del Paese per un effimero consenso elettorale”. Così la sera di mercoledì 27 luglio a Molina di Ledro, alla messa in memoria di Maria Assunta Zecchini, 85 anni, morta a Lomè il 20 luglio. Infermiera professionale, cinquant’anni fa si è fiondata in Africa, nel Biafra (oggi Nigeria) dilaniato dalla fame e dalle malattie, poi in Togo a fare “il grande albero che non dà frutto ma che dà l’ombra a tutta la famiglia africana”. È la traduzione di una nenia funebre, in lingua Ewé, intonata da tre giovani togolesi (Claire, Reine e Francisco) nel corso del rito funebre seguito da remoto anche a Lomè.
Nella chiesa di San Vigilio, tra Legos e Molina, fabbricata tra il 1758 e il 1774, cinque preti tra cui il comboniano Donato Benedetti, da Segonzano, che a Lomè, “dalla Maria” è stato di casa per molti anni. E poi, la comunità di Molina, i volontari di “Solidarmondo”, di “Stella Bianca nel mondo”, del gruppo missionario, che hanno supportato per molti anni le iniziative benefiche di Maria del Togo.
Con i familiari ledrensi della scomparsa anche la figlia adottiva di Maria Assunta, Francesca Zecchini, infermiera a Negrar (VR), e le quattro nipoti. Maria Assunta Zecchini sarà sepolta il 13 agosto ad Adetà, un villaggio a nord di Lomé, accanto al marito, il medico togolese Jean Assimadi, morto nel 2011.Per colei che è stata definita la Madre Teresa di Molina, e che il comboniano Donato Benedetti ha chiamato “Santa Maria di Molina” valgono i versi di un poeta anonimo: “Siamo acqua sul colmo dell’estate/ che fluisce a dissetare la terra/ e che svapora nell’abbraccio infuocato di Dio”.
“Adesso che sei venuto e, sia pure in pochi giorni, hai potuto toccare con mano la situazione, potrai spiegare alla gente di lassù perché molti di qui vengono a morire ai piedi dell’Europa”. Già, le ragioni di un esodo che non conosce sosta, di una emigrazione dal destino incerto, Maria Assunta Zecchini, da Molina di Ledro, volontaria in Africa da mezzo secolo, le spiegò senza giri di parole.
Maria Assunta Zecchini era una donna straordinaria. È stata una “madre Teresa di Calcutta” che il Trentino, la Val di Ledro, hanno donato all’Africa: senza saperlo, probabilmente. Andammo in Togo nel maggio 2017 per conoscere questa “nonna universale”, come la definiva il missionario comboniano trentino Donato Benedetti da Segonzano. Maria è stata una volontaria eccezionale che ha dato la propria vita all’Africa dove, alla non più verde età di ottantacinque anni, continuava a fare l’infermiera. Dalle cinque del mattino a pomeriggio inoltrato, operava in un dispensario avviato nel 2000 dai Salesiani spagnoli, poi passato ai Salesiani togolesi. Sarebbe stato destinato alla chiusura se lei, Maria Assunta Zecchini non si fosse “assunta” l’impegno di tenerlo aperto tutti i giorni dell’anno. Perché la sofferenza e la malattia non conoscono ferie, men che meno in Africa dove la malaria è endemica, l’HIV continua a mietere vittime in compagnia con il diabete e l’ipertensione che sono malattie altamente invalidanti.
Lomé, capitale del Togo, una delle nazioni che si affaccia sulla “costa degli schiavi”, nel golfo di Guinea. Africa equatoriale francese. Togo, appena otto milioni di abitanti, l’80% della popolazione con meno di 25 anni.
I bisogni sono infiniti come le gocce della risacca. L’oceano è a due passi, ogni goccia è un caso umano e ogni caso umano meriterebbe la copertina e con essa l’attenzione di chi nell’opulenza pontifica che gli africani vanno aiutati a casa loro. Da altri, naturalmente. Ricordate “Armiamoci e partite”?
Per gran parte della sua lunga vita Maria Assunta Zecchini si è rimboccata le maniche ogni giorno, dalle 5 del mattino a pomeriggio inoltrato. “Perché se non apri il dispensario alle 5 e mezza, chi deve andare al lavoro non può venire qui per le analisi, i prelievi, le visite. Molti abbandonerebbero le cure”.
Ti guardava diritto negli occhi, con quegli occhi cerulei dentro un volto sorridente contornato da una ciocca di capelli bianchi. Maria era originaria di Molina di Ledro, paese che aveva lasciato in gioventù per frequentare gli studi e diplomarsi infermiera all’ospedale “Niguarda” di Milano. Aveva lavorato alcuni anni all’ospedale di Riva del Garda. Le fu fatale un incontro con il gesuita Livio Passalacqua. “Mi ero rivolta a lui per un consiglio. Mi sarebbe piaciuto partire per dare una mano in Africa. Ero titubante. La mia famiglia poi non era per nulla soddisfatta. Padre Livio mi disse semplicemente: segui la tua strada e vai”. Era il 1968, un secolo fa.
Doveva essere un’esperienza di qualche mese, forse qualche anno. In Africa, Maria aveva trovato l’uomo della sua vita, il medico pediatra togolese Jean Assimady, un’autorità in campo sanitario internazionale. L’aveva sposato. Li aveva separati la morte del medico, nel 2011, e lei aveva deciso di continuare, anche in sua memoria. Non hanno avuto figli. A ogni buon conto Maria aveva già adottato, dandole il cognome, una bambina orfana. La mamma della piccola morì di parto. Francesca è cresciuta, si è diplomata infermiera in Italia, ha sposato un infermiere italiano, ha avuto quattro bambine e vive in provincia di Verona. La vita è un’andata e un ritorno.
Maria era rimasta a Lomé. A fare l’”Auxiliadora” e ad allevare altre decine di bambini, più che se fossero suoi. Raccontò: “Sono venuta a Afagnàn, in Togo, nel 1968 con la Mirina Pasqualini. Ero stata in Nigeria, durante la guerra del Biafra, con la sorella del carmelitano padre Sironi che era alle Laste. E poi, dopo quattro anni passati in val di Ledro, quando è morto mio papà ho deciso di tornare in Africa. E sono arrivata qui”.
Le cifre fornite da Maria Zecchini erano eloquenti: “Nel dispensario intitolato a “Maria Auxiliadora”, avviato l’11 febbraio 2000, giornata mondiale dei malati, passano per un consulto o una visita circa 1.500 pazienti al mese, una media di cinquanta-sessanta al giorno. Il dispensario segue cinquanta orfani e trecento diabetici i quali sono riuniti in associazione e si incontrano il primo sabato del mese. Un medico neurologo e un medico diabetologo sono presenti in vari giorni della settimana, ma il neurologo è disponibile sempre per tutti i casi urgenti”.
Benché le visite e le cure fossero gratuite o quasi, “il sistema di autofinanziamento e di recupero dei costi non consente più al dispensario di essere autosufficiente”.
Maria non aveva alle spalle una congregazione religiosa cui attingere, ma una fede granitica, come le montagne che fanno corona alla sua amata val di Ledro.
Mentre i giovani continuavano a fuggire verso l’Europa lei era rimata in Togo. Ed era davvero un’ancora di salvezza per molti. Per le centinaia di bambini che aveva allevato, lei che di figli propri non ne aveva potuti avere. Per i molti che aveva fatto studiare a spese proprie. Per le decine di migliaia di persone, di uomini e donne, di ragazze madri e orfani che si erano affidati a questa Maria “Auxiliadora”, a questa Maria dell’Aiuto, molto terrena ma molto speciale.
“Arrivano da me le mamme disperate, con la pressione altissima. Mio figlio è partito, piangono, e non so più niente. Attraversano il deserto, vanno in Libia e poi non si sa chi arriva, chi riesce a superare dopo la barriera di sabbia anche la muraglia d’acqua del Mediterraneo. Qualcuno, dicono o sperano qui, riesce a raggiungere l’Italia, la Francia, la Germania, a fare fortuna. Molti vengono a morire ai vostri piedi”.
Le chiedemmo: Che cos’è il “mal d’Africa”, Maria?
“Non so se c’è un mal d’Africa, ma se esiste quello ce l’ho io. È qualcosa che ti attira, è la gente, non lo so. È qualcosa di diverso da tutto”.
Che cosa chiede al Trentino, alla sua comunità di origine?
“Già fa molto, l’aiuto più grande io l’ho dalla mia Val di Ledro e poi c’è un’associazione di Riva del Garda, “Solidarmondo”, che si occupa bene di noi. Sono loro che provvedono a coordinare la rete di aiuti, mandano ogni anno un container alle suore della Provvidenza a Kouvé, con materiale anche per noi: cibo e altro. Poi ci sono molti amici, dalla Mirina a sua sorella Annamaria, all’ing. Zontini, a Barbara, che sono sempre pronti a venire in aiuto”.
Come si svolge una giornata-tipo qui al dispensario?
“Cominciamo alle cinque e mezza perché ci sono malati che hanno il diabete o l’ipertensione ma hanno anche un lavoro. Se arrivi tardi, perdono il lavoro e loro non vengono più. Allora, per loro veniamo presto, facciamo i prelievi, le visite prima dell’alba. È un po’ dura, sia per loro come per noi, ma loro ci chiedono questo. Abbiamo provato a spostare le ore ma non era possibile. Poi ci occupiamo degli altri finché c’è qualcuno da visitare, da aiutare. Il lunedì c’è il neurologo; il martedì e mercoledì c’è la diabetologa. Abbiamo anche un chineseterapeuta che viene a fare i massaggi perché ci sono molti pazienti colpiti da ictus ed emiparesi”.
Nel dispensario di Maria Assunta Zecchini, “africana” della Val di Ledro, passavano uomini e donne, mamme e bambini. I soldi non bastavano mai. Quando qualche anno fa l’arcivescovo Bressan le diede 500 euro perché comprasse un climatizzatore (qui la temperatura supera spesso i 35 gradi, l’umidità fa il resto), la Maria di Molina spese quel denaro per comprare medicine. “Ma non fatelo sapere a mons. Bressan, sennò magari si arrabbia”.
Come Maria, “africana trentina”, anche i pochi medici sono volontari in questo dispensario dell’Auxiliadora. Da quando è in pensione, il dott. Augustin Kokodoko, che ha studiato all’Università cattolica, a Roma, opera qui un paio di giorni la settimana: “Abbiamo il problema della malaria, forme infettive, parassiti. Io sono neurologo e vedo anche patologie legate alla mia specialità. Abbiamo parecchi casi di neuropatie, emiparesi correlate al SIDA (AIDS, in francese). Abbiamo un po’ di tutto. Poi vediamo problemi di ginecologia. Stamattina, per esempio, è arrivata una giovane donna con un tumore al seno. Un seno smisurato. Non si riesce a operarla perché, maledettamente, le chiedono soldi che lei e la sua famiglia non possono avere”.
Solo per l’intervento dovrebbe pagare millecinquecento euro. Un’enormità, qui, dove il salario mensile non supera i 50-60 euro. Hélène aveva trent’anni e quattro figli. L’ultimo, uno scricciolo di poco più di un mese, era tenuto in braccio dalla nonna che ha accompagnato la figlia al dispensario per prendere il latte perché Hélène, malata di cancro, non lo poteva allattare. Ti guardava con due occhi di una tristezza infinita. Maria la accarezzava e aveva gli occhi velati di lacrime. Non ci fosse stata la Maria di Molina di Ledro, probabilmente quella giovane donna sarebbe già morta. Invece fu operata di lì a poco, grazie agli aiuti arrivati dal Trentino. Oggi sta bene e il suo cucciolo ha superato i cinque anni.
“Ho sempre pensato che sarei venuta in Africa, ma non per restarci. Quando studiavo a Milano, c’erano alcune suore, delle amiche, che si preparavano alla missione. Dicevo loro: mi piacerebbe fare un’esperienza, ma non da suora. Ed eccomi qui”.
La comunità come l’ha accolta?
“La grande famiglia nella quale sono entrata mi ha accettata bene. Quando ho cominciato andai ad Afagnan e lì era una specie di isola italiana. C’erano i padri comboniani, c’erano le suore della Consolata di Torino, i padri del Fatebenefratelli che erano i responsabili dell’ospedale “San Giovanni di Dio”. Lì non era veramente l’Africa-Africa perché c’era questo nucleo importante di italiani. Quando sono entrata nella famiglia africana è stato un po’ diverso. Non ho mai avuto problemi di rigetto. Anzi, dirò la verità, dopo la morte di mio marito la famiglia è stata così stretta attorno a me, così presente, che mi hanno stupito. Si sono sempre occupati e preoccupati per me”.
Nella sua vita ha avuto, immaginiamo, gioie e dolori. La soddisfazione più grande qual è stata?
“Sentire che servivo a qualcosa”.
Fino a quando continuerà a lavorare?
“Fin quando il Signore vorrà. Una mattina non arriverò più al dispensario. Spero che qualcun altro lo aprirà al mio posto. Ogni tanto dico: mi ritiro, mi ritiro. Avevo preparato un ragazzo. L’ho tenuto per sette anni, lo ho fatto studiare e diventare infermiere professionale. Ha cominciato a lavorare con me ma è diabetico. A un certo punto ha cominciato ad avere crisi di iperglicemia che gli hanno preso la testa. Non è più possibile che possa sostituirmi. Questo è stato uno dei miei grandi dolori. Per anni e anni lo abbiamo preparato. Anche mio marito ci teneva moltissimo. Voleva che facesse medicina, poi lui è mancato e io non avevo più possibilità di mantenerlo agli studi”.
Maria aveva lavorato vent’anni nell’infermeria dell’aeroporto di Lomé riuscendo così ad avere una pensione di 33mila franchi CFA (circa 50 euro).
“Si vive, anzi, chi ha quella entrata lì si ritrova un numero di familiari attorno che attingono a quel denaro. Qui la famiglia non è come da noi, è allargata. È una sorta di clan”.
Altri 400 le arrivavano dall’INPS. Sarebbe stata una buona entrata se Maria non avesse dovuto sostenere il Dispensario, i questuanti, le decine di persone che bussavano alla porta di casa: per un aiuto, per una sistemazione provvisoria.
La casa dove viveva era del marito, così come altre proprietà a Lomé. Ma alla morte dell’uomo, in Togo, la vedova non ha diritto a nulla. Tutto va in capo al maschio più anziano della famiglia d’origine. Per una decisione più unica che rara, la famiglia africana del dr. Assimadi aveva consentito che Maria Zecchini potesse abitare la casa di Lomè finché fosse stata in vita. Lei aveva già disposto tutto. “Se capiterà qui, c’è già la mia tomba pronta al villaggio di mio marito. Se sarà in Italia, mia cognata, alla quale sono molto legata, sa già che cosa fare”.
Una radicata tradizione animista togolese ritiene che lo spirito (l’anima) della persona risieda nelle unghie e nei capelli. Se una persona muore lontano dal villaggio si levano unghie e capelli e si inviano alla famiglia africana che provvederà alla sepoltura. Soltanto così lo spirito della persona scomparsa potrà avere pace.
Maria, rifarebbe ciò che ha fatto?
“Sì, con qualche modifica forse, ma rifarei tutto. Credo proprio che ritornerei di nuovo qui”.
Come vorrebbe essere ricordata?
“Vorrei che pensassero che ho cercato di amare tutto il mondo e forse non sono riuscita. Ho fatto tanti errori, sai, anche perché a volte non hai nessuno con chi confrontarti, cui chiedere consiglio”.
Addio, Maria Assunta di Ledro, nonna del Togo, grande anima del mondo. Di un mondo oggi davvero più povero e sconsolato. Come tutti coloro i quali hanno avuto il privilegio di guardarti negli occhi. E di volerti bene.
2 commenti
Impossibile dimenticarla dal 1971 anno che ho potuto conoscerla , ad oggi resterà nella mia mente – cuore – anima , spero tanto mi tenga un posticino al sui fianco.
Ciao incantevole bontà, BUON VIAGGIO
Bellissima storia e soprattutto magnifico esempio di vita veramente cristiana! Da santificazione !