Dopo la forzata sospensione di due anni per la pandemia, tra il 23 aprile e il 15 maggio, a Zambana nelle “Terre d’Adige”, si celebra il festival degli asparagi. La comunità con “Le mani nella terra”, intende celebrare un ortaggio a “denominazione comunale” che si coltiva nei campi e lungo l’argine dei due fiumi (Noce e Adige) almeno dalla metà del XIX secolo quando l’intera piana fu bonificata e gli acquitrini divennero terra fertile. Oggi l’asparago bianco di Zambana (de.co.) si aggira sui 350 quintali. La produzione vendibile è di circa 220 quintali. Sommati alla produzione di altri due consorzi si superano i mille quintali-anno. La raccolta va da metà aprile a metà maggio, da notte fonda a metà mattina. Davide Bosetti, 29 anni, imprenditore agricolo: “Due anni fa abbiamo creato un consorzio al quale possono iscriversi tutti coloro che hanno il marchio de.co. del comune di Terre d’Adige, l’unico che garantisce la provenienza degli asparagi bianchi di Zambana”. Il festival di primavera richiama l’attenzione su un villaggio che è morto e risorto, che è stato cancellato dalla geografia d’Italia e, a dispetto di leggi e decreti, è sopravvissuto a sé stesso. Accadde 65 anni fa ma ogni pietra, ogni pezzo di terra, ogni cippo fra il Noce e l’Adige, restituiscono frammenti di un passato rimasto immobile. Come la meridiana sulla antica chiesa dei santi Filippo e Giacomo, isolata dal resto delle abitazioni, col campanile che svetta di là da un imponente vallo a protezione da nuove, ipotetiche, possibili, frane. Come quelle che fra il 1955 e il 1956 costrinsero la popolazione ad abbandonare, chi per poco, chi per sempre, quel lembo di territorio sotto la Paganella. È una “storia” tutta da raccontare.
L’epidemia di colera dell’estate del 1855, causò in Trentino la morte di 6.208 persone. A Zambana passò come acqua sul ghiaccio. Non vi fu alcuna vittima, nonostante il contagio avesse popolato i cimiteri di altri paesi della Rotaliana. Vent’anni prima, nel 1836, il “morbo asiatico”, che in Trentino aveva ucciso 5.748 fra uomini e donne, vecchi e bambini, a Zambana aveva causato la morte di 14 dei 223 residenti. Risparmiati dal colera del 1855, i 203 abitanti di Zambana fecero un voto alla Madonna; acquistarono una statua di legno e fissarono la festa per il giorno 8 settembre (Natività di Maria). Il voto, segnalato nel 1870 e 1911, fu rinnovato nel mese di settembre del 1943 sotto l’incalzare dei bombardamenti degli anglo-americani per colpire il ponte dei Vodi. Lungo la ferrovia transitavano, infatti, i rifornimenti dalla Germania per i soldati del Terzo Reich che avevano occupato l’alta Italia. Nei due anni seguenti caddero bombe un po’ ovunque attorno all’abitato di Zambana, ma non vi fu alcuna vittima fra la popolazione.
La processione con la statua della Madonna fu annullata il 7 settembre 1955. La notte precedente, complice un nubifragio, era scivolata a valle una frana di ghiaia e di sassi. Era cominciato lo smottamento che, di lì a qualche mese, avrebbe portato al decreto di abbandono forzoso dell’abitato. Sarebbe seguita (1957) la cancellazione di Zambana “vecchia” dalla toponomastica, ma non dalla cronaca e dalla storia.
Scrisse il giornale “Alto Adige” (9 settembre 1955): “Dalle 21 dell’altra sera la montagna a nord di Zambana ha cessato di riversare nella valletta del Rio Secco i grossi macigni e le migliaia di metri cubi di materiale che per oltre venti ore avevano posto in serio pericolo tutto il paese, investendo le prime case dell’abitato e la stazione di partenza della funivia della Paganella. […] Ieri la processione, per causa di forza maggiore, non ha potuto aver luogo. Il rito, tuttavia, è stato celebrato nella chiesa parrocchiale e la funzione è stata officiata dal vescovo missionario mons. Ceol”.
La parrocchiale di Zambana vecchia (quella nuova fu fabbricata nel 1964), di stile gotico con facciata barocca, era dedicata ai santi Filippo e Giacomo. L’interno, a tre navate, era stato affrescato nel XVI secolo con scene della vita di Maria e di Gesù Cristo. La lapide sepolcrale del barone Giorgio di Spaur e Valèr testimoniava il patronato della famiglia anauniese. Il nobiluomo morì nell’estate del 1573. Secondo la tradizione popolare fu ucciso a colpi di pietra sulla strada del Brut Pas, tra Zambana e le Locchere.
Per molti secoli l’area attorno all’abitato fu paludosa e malsana, strangolata fra l’erta del monte e i corsi d’acqua, dal rio Manara al Noce fino all’Adige. Ostaggio di frequenti esondazioni. Per tale ragione Zambana sorse su un conoide di deiezione, su un sedimento alluvionale del rio Manara. La bonifica operata a metà dell’Ottocento, con la regolazione del corso del Noce alla confluenza con l’Adige, diede ai contadini un po’ di terra e liberò Zambana dalle ricorrenti febbri malariche.
Nel 1860, la popolazione era di 202 unità; aumentò a 260 dieci anni dopo; era di 211 anime nel 1879 poi fu un crescendo: 263 nel 1889 e 363 nel 1901. Contava 570 abitanti, il villaggio di Zambana quando fu “cancellato” dalla toponomastica (1957) dopo che era stato devastato dagli smottamenti tra l’autunno del 1955 e la primavera del 1956. In paese c’erano soltanto tre automobili. La strada correva in sponda destra dell’Adige e, per raggiungere Trento, si passava dalla Vela.
“Avevamo tre corse al giorno della corriera che da Trento passava per la Vela e Ischia Podetti”, ricordò nel 2014 Eligio Frizzera, 94 anni. “Partiva alle 8, a mezzogiorno e la sera. Trasferiva a Zambana i residenti e pure numerosi turisti che prendevano la funivia per Fai della Paganella. Il sabato e la domenica c’era un continuo via vai. In quel periodo, Zambana vantava tre osterie, un ristorante e un albergo”.
Sessant’anni dopo le frane e gli smottamenti, l’unico luogo pubblico ancora in esercizio è il cimitero. Non fu mai abbandonato perché era collocato già allora in posizione defilata rispetto alla zona di pericolo. Per la toponomastica non esistono due “Zambane”: la vecchia e la nuova. Fanno parte di un unico comune (“Terre d’Adige”, istituito nel 2019 dalla fusione con Nave San Rocco) e la sola distinzione è data dai nomi delle vie. Nel villaggio che fu abbandonato, in parte, nel 1956, resistono le vie: “per Zambana vecchia”; “piazza Umberto Nobile”; “Giacomo Matteotti” (che conduce al cimitero); “via dei Molini” e “via ai Vati”.
La meridiana, dipinta sul campanile a bifore romaniche e cuspide piramidale, segna lo scorrere del tempo dal 1893. Ai passanti, a coloro che s’avventurano oltre l’imponente vallo paramassi alzato nel 1995, rievocava la caducità della vita: “Come l’ombra i nostri giorni”. È rimasta un’ombra di silenzi, rotti dall’abbaiare dei cani tra le case ricostruite o semi abbandonate di quello che fu un importante villaggio della piana Atesina, tra il Noce e la montagna. Tra gli anziani, testimoni ancora viventi di quel che accadde nel 1955-1956, riaffiora la memoria della frana, della polvere, della pioggia, degli smottamenti, dell’esodo, dello sgombero delle abitazioni, dello smembramento di una comunità.
“I segni premonitori del primo crollo apparvero nel 1951: nel corso di cinque anni il quadro deformativo andò evolvendosi dall’entità infinitesimale fino al collasso globale”, scrissero i tecnici della Provincia di Trento in una relazione del 1991.
In verità qualche avvisaglia s’era avuta molto prima, tanto è vero che, negli anni Trenta, in Val Manara, era stato alzato uno sbarramento che, nel tardo autunno del 1955, fu trascinato a valle dalla colata di ghiaia e sassi. I boscaioli che si avventuravano in quella zona (“ale Bùse”) avevano sempre paura di qualche crollo. Paolino Filippi, 83 anni, che incontrammo al bar di Zambana nuova nel pomeriggio del 9 ottobre 2014, raccontò che fin dal 1949 andava a tagliare gli alberi sotto la parete della Paganella. “Su, dove c’era la crepa, anzi, dentro la crepa stessa, crescevano larici grossi così e non è escluso che siano state proprio le radici di quelle piante a favorire il distacco dei massi”.
L’estate del 1955 fu caratterizzata dal distacco dalla Paganella di una vasta porzione di roccia. Il 7 agosto era domenica. Due giorni dopo “il Gazzettino” di Venezia (giornale che aveva una redazione anche a Trento) pubblicò un breve articolo: “Dopo quella del tardo pomeriggio di domenica, altre frane si sono staccate dalla parte est della Paganella e più precisamente dal Costòn delle Fratte che sovrasta la Val Manara. Come riferimmo nell’edizione di lunedì, per primo ruinò a valle verso le 18 un grande diedro del volume di circa trentamila metri cubi e provocò tale boato da far tremare alcune case di Zambana i cui abitanti, impressionati, si rifugiarono nelle sottostanti campagne”. Altre tre frane si erano staccate nelle ore successive, causando “egualmente paurosi effetti e fatta sollevare una densa nube di polvere che si riversava sulla strada di Zambana”. Il giornale intervistò un contadino: “Ci sembra di vivere sotto un vulcano in eruzione, ma ormai la cosa non ci impressione più perché a proteggerci dalle frane della Paganella ci pensa il Dos del Frate”.
Una pia illusione, durata lo spazio di un mese. La situazione “precipitò” il 7 settembre 1955, trascinata nel letto del torrente ingrossato da un violento acquazzone.
“Dapprima un brontolio lontano, come d’un temporale che avanza marinando i tuoni attraverso le gole, poi un sordo boato che pareva vomitato dalle viscere della montagna, hanno preannunciato nel cuore della notte l’impressionante franamento di 25 mila metri cubi di roccia e sassi che oggi dilagano, coperti da una spessa mota, nella valletta a monte del paese di Zambana. Da venti ore nell’abitato regna lo stato d’allarme, mentre sempre maggiore si fa sentire il pericolo che quattro case, ormai serrate nella morsa di grossi macigni che spaventosamente premono alle loro fondamenta crollino, aprendo in tal modo la via al vastissimo fronte trattenuto da sbarramenti artificiali. Dalla montagna sovrastante, fra due pareti incassate che formano un profondo canalone, il materiale precipita con la violenza e l’aspetto di un fragoroso torrente che uscito dall’alveo trascina in basso, spazzando inesorabilmente tutto ciò che gli sbarra la via, abbattendo pali, sradicando piante e sommergendo ogni altra cosa”.
Così Massimo Infante, inviato del giornale “Alto Adige” in un primo reportage dal titolo “25mila metri cubi di roccia stringono Zambana in una morsa”. Clementina Bottamedi aveva 22 anni ed era appena tornata a Zambana dal Brasile dove, nel mese di ottobre del 1951, aveva raggiunto il marito che aveva sposato “per procura” il 28 luglio. Vissuta a San Paolo per quattro anni, sbarcò in Italia giusto in tempo per subire una nuova migrazione. “Siamo arrivati a Zambana il 7 agosto 1955 quando dalla Paganella cominciavano a staccarsi i primi blocchi di calcare”.
Scrisse, un mese dopo, il giornale l’Adige: “Domenica 7 agosto, nel pomeriggio, e successivamente per tutta la notte, quindi in alcune riprese nei giorni seguenti, frane di roccia avevano fatto scomparire dalla parete est della Paganella il grande diedro che domina l’abitato del paese. Circa trentamila metri cubi di massi e terriccio, forse più che meno, erano venuti così accumulandosi in una valletta posta al termine di una prima “lingua” della frana, là dove quarant’anni fa, con spirito previdente, quelli che adesso sono gli anziani di Zambana avevano costruito una grande diga di sbarramento su un fronte di quaranta metri circa e con uno spessore di un metro e mezzo. La diga, solidissima, era stata rialzata nel 1938 di cinque metri, nella convinzione che eventuali crolli di massi, ai quali in paese si è fatta l’abitudine in questi anni, sarebbero stati bloccati prima di scavalcare la valletta e quindi la successiva, al colmo della quale si trovano “le fratte” che sono l’ultima protezione dell’abitato”.
Un mese dopo, la notte del 7 settembre 1955, un boato “spaventoso” svegliò la popolazione di Zambana. A quella frana staccatasi dalla Paganella, seguirono in poche ore altri crolli: alle 8 del mattino, a mezzogiorno e nel primo pomeriggio di una domenica di pioggia. “È avvenuto che l’enorme cumulo di materiale calcareo convogliato nella valletta in successive ondate di crolli – scrisse il giornale – si è “gonfiato” per la pioggia, quindi è “esploso” contro la parete della diga di sbarramento che è stata squarciata sul lato sinistro per un fronte di venti metri. Da qui il materiale è colato come la lava, scivolando nel corso del Rio Secco e del Rio Maor che si erano uniti e che si erano aperta una strada in parte nuova. La lingua di franamento si è rinsaldata ed estesa successivamente raggiungendo la stazione della funivia e penetrando nell’interno di quell’edificio, nell’annesso magazzino e nel vicino bar. Lesionate pure altre due case che sono state fatte sgomberare”.
La notte della frana, l’allarme fu dato da Romano Casotti, un “contadino che abitava nell’ultima casa del paese, a poche decine di metri dove in un sol punto confluiscono le acque del Rio Secco, del Rio Palude e del Rio Maor”. Raccontò a Massimo Infante, inviato del giornale “Alto Adige”: “Mi svegliai di soprassalto e sull’istante ebbi l’impressione che tutta la Paganella precipitasse, tanto la terra di scuoteva e la valletta era colma di boati. Scossi dal sonno mia moglie, presi uno ad uno i tre figli e mi precipitai verso il paese”.
Alle due della notte, i rintocchi della campana a martello svegliarono tutta la popolazione. “In pochi minuti tutto il paese era sulle strade. Le grida disperate delle donne prese dal panico, il vociare degli uomini che si dirigevano verso la stazione della funivia, venivano soffocati dal cupo rumore della frana che sempre più alimentata irrompeva a valle”.
Il sindaco di Zambana era Sebastiano Pilati; il comandante dei vigili del fuoco volontari si chiamava Bruno Bassoli. I collegamenti con le altre borgate erano difficili. Cercarono di coordinare il lavoro dei volontari. Ma era buio pesto, pioveva, e soltanto all’alba il disastro si svelò in tutta la sua impressionante ampiezza.
La cronaca, dettagliata, del pericolo ebbe grande risalto su tutti i tre quotidiani che si pubblicavano, allora, in Trentino: L’Adige, il Gazzettino, l’Alto Adige. Nei giorni e nei mesi successivi, i cronisti si occuparono a lungo di quella comunità spaventata dalla montagna.
Dopo le prime avvisaglie di settembre 1955, la vita riprese i ritmi della civiltà contadina: la raccolta delle patate, la vendemmia, la stalla. Il 21 ottobre 1955, attorno a mezzogiorno, un violento temporale causò l’allagamento delle cantine e della chiesa. Vi fu lo sgombero di alcune abitazioni, tuttavia pochi giorni dopo l’allarme rientrò. Passò un mese. Il 24 novembre gli strumenti di monitoraggio, fissati dai geologi sulla montagna, segnalarono un imminente crollo. Nella notte, la Paganella fu illuminata dalle fotoelettriche dell’esercito. L’indomani, venerdì, alle 7.08 un gigantesco masso si staccò dalla parete pericolante della montagna.
Testimoniò, cinquant’anni dopo, Tarcisio Chini: “Un grande boato, un forte spostamento d’aria e un’imponente, densa nube di polvere investì il paese: grida, terrore… Tutta la popolazione si riversò sulla strada e fuggì verso il ponte. Chi gridava di stare in casa. C’era il pericolo di soffocare: non ci si vedeva a un metro di distanza. Lentamente la nube si dileguò invadendo tutta la vallata e lasciando uno strato di terriccio bianco dappertutto. Sembrava avesse nevicato. […] La gente era muta: aveva la certezza che con le prime piogge gran parte del paese sarebbe sparita. Il sabato 26 novembre alcune assistenti sociali raccolgono i nomi di tutti i bambini: circolavano voci che li avrebbero portati negli istituti di Trento. Si cercava di sapere quali provvedimenti avrebbero preso. La domenica mattina tutta la popolazione si porta in chiesa per la solita messa domenicale nell’attesa che il curato comunicasse qualche notizia. Infatti, al posto dell’omelia, con grande commozione don Roberto legge l’ordinanza del presidente della Provincia, secondo la quale la popolazione doveva lasciare il paese entro 36 ore; venivano messi a disposizione i mezzi militari per il trasporto delle famiglie con proprie masserizie e chi non avesse trovato sistemazione presso parenti nei paesi vicini sarebbe stato ospitato a Fai. L’unico commento di don Roberto fu “Non ci resta che obbedire”, seguito da un pianto dirotto”.
La partenza dei pullman fu coordinata dallo stesso presidente della Provincia, Remo Albertini (1920-2005). Marco Gasperi aveva cinque anni: “Me ricordo che névo col celét de aluminio a tòr el lat lì dai Clementèi e dopo, tut de colp, s’ha sentù sto rumor, tut en polveròn … e la zent che scampava e per ripararse la néva nei covoni dei strami. Me ricordo che no te vedevi for gnent dala finestra. Avevo apena finì l’asilo; me fradél el gaveva trei ani e l’altro, pu picol, l’Emanuele doi”.
Dopo il crollo del 25 novembre 1955 anche Marco Gasperi finì sfollato, come i suoi coetanei, in una struttura della Croce Rossa Italiana a Levico Terme. L’Emanuele restò con la mamma, Antonia Clementél. La donna, che nell’autunno del 2014 aveva 91 anni, raccontò: “Avevo tre bambini piccoli; dopo che i doi pu grandi i me li ha portadi via, el pu piccol l’ho sempre tegnù scont [nascosto], però a dormir neven en po’ for dal paes de Zambana, en t’en mas”.
Gli fece eco il figlio, Marco Gasperi: “De not, nel paes che averia dovest esser desert, passava i pompieri e i militari a far la ronda perché no doveva esserghe boci piccioli. Alora, me mama, quando i pompieri i vegniva a controlàr, la scondeva l’Emanule sul stàbit [in soffitta]”.
E i bambini sfollati? “Pianzeven dal destràni. Me ricordo che a Levico me fradèl el pissava ‘n del lèt. E le ciapàvo mi, per elo, le botte dale suore. A Levico ho fat l’ultim an de asilo e dopo son sta mandà a far la prima elementare a Rizzolaga de Piné, dent en de ‘na colonia. Me ricordo che i pu grandi de noi, quei de quinta, i aveva ligà ensema alcuni linzòi e i s’era molàdi giò dal terzo piano. Dopo, con l’orientamento della Paganella i aveva traversà tuta la montagna e i è arivadi chi ‘n Zambana. A pè. Sarà sta destràni!”.
Un po’ con l’astuzia, un po’ con l’arguzia, la famiglia Gasperi riuscì a rimanere a Zambana vecchia anche quando l’abitato fu trasferito agli Àicheri. Ancora Marco Gasperi: “Mio padre aveva costruito la casa, come tanti, nella zona di Zambana nuova. Mio padre faceva l’impresario edile e un giorno venne il parroco, don Bruno Zuccali (1910-2005), a dirgli: “Dàme quela casa per far l’asilo”. Siccome me papà l’era de ciésa, el stravedeva per i preti, el gà dat la casa nova e noi ne sen stabilidi chi a Zambana vècia”.
Tra gli sfollati ci fu anche Clementina Bottamedi, appena tornata dal Brasile. “Noi sen stadi sfolàdi a Fai. Siamo rimasti su fino a marzo del 1956 poi siamo tornati a Zambana, ma dopo San Giuseppe (19 marzo) cominciò di nuovo a crescere il pericolo. Nel frattempo stavano fabbricando alcune baracche di legno e a noi, poiché avevo già un figlio e uno era in arrivo, diedero una baracca vicino al cimitero”.
Molti abitanti del villaggio facevano i contadini, avevano la stalla. Gli animali che fine fecero? “Le bestie el l’ha binàde ensema l’Istituto Agrario de San Michele. Ghà pensà quelo a portarne via le bestie”. Nostalgia di Zambana vecchia? “Anca adess, però no torneria via pu, dopo tut quel che aven passà”.
Durante l’inverno del 1955-56 squadre di operai e di volontari cercarono di bloccare lo smottamento con alcune briglie nei letti del rio Maor e del rio Secco. Nel frattempo si fece strada l’idea di ricostruire il villaggio nella località Ischia, tra l’Adige e il Noce, mentre, da Milano e da altre città inviarono aiuti. Le prime casette prefabbricate furono allestite all’Idrovora e in prossimità del cimitero, lontano dallo smottamento. Il 24 marzo 1956, in seguito a nuove precipitazioni si verificò un ulteriore franamento che sommerse oltre metà delle abitazioni. Il giorno seguente, una nuova frana sfondò la diga alzata sul rio Maor, schiantò alcune case e le famiglie tornate in paese da qualche giorno per attendere ai lavori nei campi, furono costrette nuovamente a fuggire.
Il peggioramento della situazione costrinse il sindaco (10 aprile 1956) a ordinare la demolizione di una parte del paese, per consentire il deflusso del fango e dell’acqua. Sei giorni dopo, si ebbero nuove frane. La ghiaia sommerse le ultime abitazioni rimaste. Si salvarono soltanto la chiesa, la scuola elementare, l’asilo infantile, fabbricato da poco, e qualche abitazione lontana dal conoide.
Ormai la sorte di Zambana era segnata. La ricostruzione del paese, con un costo valutato in un miliardo di lire, impegnò i capifamiglia in estenuanti discussioni. Scartate, per il pericolo di esondazioni dell’Adige e del Noce, le zone dell’Ischia e di Nave San Rocco fu scelta la piana degli Àicheri nel comune di Lavis. Ventitré ettari di terreno che la Provincia decise di espropriare, forte anche di un decreto del presidente della Repubblica, Gronchi (10 luglio 1957).
Il 9 marzo 1958 gli elettori di Lavis e di Zambana furono chiamati alle urne per esprimere un parere in merito allo spostamento dell’abitato. Sia pure obtorto collo, la popolazione di Zambana rispose che avrebbe accettato la scelta degli Àicheri. A Lavis vi furono pareri contrastanti. Taluni, infatti, avrebbero voluto che alla cessione del terreno fosse sottesa l’incorporazione di Zambana nel comune di Lavis.
Prese il via la ricostruzione. A ogni proprietario di casa nel paese di Zambana “vecchia”, la Provincia assegnò un finanziamento del 50-60% per la fabbrica di una nuova abitazione. Chi non possedeva immobili, fin dal 1959 fu alloggiato negli appartamenti di edilizia popolare sorti nel frattempo agli Àicheri.
Entro dieci anni dal trasferimento della popolazione a Zambana “nuova”, lo Stato avrebbe dovuto provvedere alla “demolizione degli edifici insistenti nella zona abbandonata”. Invece tutto fu lasciato com’era al momento dell’abbandono, anche perché la popolazione di Zambana “nuova” continuava a servirsi del cimitero di Zambana “vecchia”.
Il problema si ripropose a distanza di vent’anni. Una relazione della Giunta Provinciale di Trento (1993): “Dal mancato adempimento [della demolizione] traggono origine le vicende che, nel tempo, hanno riportato alla luce il problema di Zambana. Pur nel permanere dei giudizi tecnici sulla pericolosità del vecchio abitato, la constatazione che nessun crollo si era ulteriormente verificato dopo il 1956 e la presenza in loco di un patrimonio abitativo di per sé idoneo a tale uso, andavano via via alimentando il gratuito convincimento che, stabilizzatasi la condizione dei luoghi, il vecchio centro dovesse intendersi ormai “riabilitato” anche per usi abitativi. Sulla base di tali considerazioni, non ostacolate neppure dai vecchi proprietari che avevano vissuto in prima persona il dramma del 1955/56, si andavano a rioccupare abusivamente, in forma stabile, alcune abitazioni già abbandonate”.
Da 844 abitanti del 1961, Zambana nuova passò a 1.372 del 1971, divenuti 1.688 nel 1977. Quell’anno c’erano 117 bambini alla scuola materna, 213 scolari, 70 studenti delle medie. Per contro, di là dal Noce vivevano 128 persone di 38 famiglie.
“C’è stata troppa fretta nel mandare via la popolazione e per abbattere le case. L’inabitabilità era solo per dieci anni e poi ci è dimenticati della questione”, dichiarò Camillo Pilati a Mattia Frizzera, per il giornale l’Adige, nel novembre del 2005. Camillo Pilati era uno dei promotori il “Comitato pro Zambana vecchia” sorto negli anni Settanta quando la Giunta Provinciale (presidenti Grigolli e poi Mengoni) decise che, per evitare pericoli alla popolazione tornata a vivere a Zambana “vecchia”, si dovevano abbattere tutti i fabbricati e risolvere in tal modo anche le situazioni abusive. Vi furono proteste plateali e infuocate assemblee. Nel giugno del 1977, infatti, una proposta di legge della Giunta provinciale di Trento aveva riacceso il fuoco di una polemica che covava da sempre, fin dal 1956.
Sulla scorta di sondaggi dei geologi e di studi approfonditi (“Possiamo sostenere che tutti gli elementi rocciosi che oggi si rilevano più o meno disgiunti dal corpo del prisma precipitato nel 1955 sono in ogni caso da ritenersi in stato d’equilibrio precario e predisposti al crollo”) la giunta provinciale di Trento decise che Zambana vecchia andava cancellata con le ruspe.
L’allora battagliero settimanale diocesano “Vita Trentina” (12 giugno 1977) titolò: “Se state buoni vi radiamo al suolo”. Ma come? A Zambana vecchia c’era da sempre il cimitero che serviva anche la “nuova” comunità (ampliato nel 1996), e il sindaco aveva sempre autorizzato il taglio di legname sotto la frana del 1956. Si era consentito persino l’insediamento di un’azienda (trasferita a Verona nel 1974) che dava lavoro a 64 operai. Inoltre, nessuno dei 38 nuclei familiari pareva disposto a lasciare il paese, nonostante la promessa di un alloggio dell’edilizia popolare, peraltro ancora da progettare.
Ci fu un estenuante contenzioso tra gli amministratori provinciali, che temevano l’accusa di omissioni in atti d’ufficio, e gli abitanti di Zambana vecchia i quali minacciarono più volte le barricate. Finché, negli anni Novanta furono attuate costose operazioni di ancoraggio della roccia pericolante e fu completata la costruzione di un imponente vallo paramassi che divise in due l’abitato. Nell’ottobre del 1993, con la conclusione dei lavori di difesa attiva (sulla Paganella) e passiva (il “tomo” sul fondovalle), costati 9 miliardi di lire, il sindaco Fabio Bonadiman revocò l’ordinanza del 1956 che dichiarava inabitabile il paese di Zambana vecchia.
Alcune case di là dal “tomo” furono abbattute, altre due furono demolite a seguito di una slavina (1999). Zambana vecchia tornò a vivere senza l’assillo di evacuazioni forzate.La situazione restò pressoché immutata. Chi ci viveva da anni continuò a mantenere la propria residenza sulla sponda destra dell’Adige. Qualcuno tornò a ristrutturare i vecchi edifici ma per l’amministrazione comunale di Zambana nuova (oggi di “Terre d’Adige”) non è mai esistita una frazione “vecchia”. Per l’anagrafe comunale, quelle settanta persone che vivono “di là” dal Noce, abitano in “via per Zambana”, “via Molini”, “via per Trento”.
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