Molte tradizioni del mondo contadino si sono sfarinate con la secolarizzazione dell’ultimo ventennio del Novecento. Eppure, ogni volta che torna la Pasqua si ripropongono in talune valli i frammenti di una ricca serie di appuntamenti, di rievocazioni, di devozioni. Per esempio, la pratica dei crotali di legno. In Val di Cembra le chiamano renéle, a Giovo teredèda, nelle Giudicarie e in Val di Non ràcole, in Val Rendena trabàccole, battedelle, nella zona di Storo graùc, in Valsugana e nel Tesino gràmole o sgrègole, a Trento gréga; a Lavis renella o Bottichiella. In Val di Fassa sono indicate come Ró da vènder sènt. Nella bassa Val Lagarina e nell’alto Garda trentino erano chiamate ràcole, bataréle, racoloni. In Valsugana, ma anche nel Tesino, nei tre giorni del lutto il campanello era sostituito dal batudèlo che batteva una tavola di legno. In italiano sono dette bàttole ma la battola è diversa dalla renéla. Quest’ultima è formata da un legno incavato. Vi è fissata una ruota dentata che viene fatta girare. Le tacche della ruota comprimono e fanno saltare un’assicella ricurva e provocano, in tal modo, un rumore secco, come il cra cra di un concerto di rane. Viene (veniva) usato dalla notte del giovedì santo alla sera del sabato di Pasqua. Il tempo cioè nel quale le campane resta(va)no mute, il tabernacolo vuoto e le ostie consacrate sono trasferite in un altare laterale dove sono allestiti i cosiddetti Sepolcri. Con questi crotali di legno si richiama(va) la comunità ai riti della settimana santa. Per i ragazzini era una grande festa poter far fracasso con la renéla, o gràtola o ràcola.
In Val di Fassa, segnatamente a Campitello, si usa la battola. È una tavola di legno con in mezzo un martello fissato a un perno. Si batte ritmicamente da una parte all’altra. Alle sei del mattino del venerdì e del sabato santo l’onore della batolàz (cioè di battere la battola) tocca a una quarantina di capifamiglia. Durante il giorno lo strumento passa ai ragazzi che dalla chiesa, sul colle, scendono tra le case ad annunciare l’imminente funzione religiosa. La batolàz è pratica antica. Rammenta la passione e morte di Cristo con il rumore secco delle martellate usate per inchiodarlo sulla croce. A dispetto della secolarizzazione i bambini della Val di Fassa attendono ancora con trepidazione, e come un grande regalo, una battola nuova per fare corteo la settimana che precede la Pasqua.
Al venerdì, nel silenzio della morte di Dio, con botti secchi come colpi di martello, chiamano a raccolta per la Via crucis della sera. Ci sono croci e lanterne, lumini alle finestre e tra le case si smorza il sommesso salmodiare dei devoti. Sostano per quattordici volte, in altrettanti angoli del paese, per ripresentare una tragedia vissuta duemila anni fa a Gerusalemme.
La processione delle Bòre a Storo
Il venerdì santo, a Storo, un corteo formato da squadre di giovanotti del paese trasportava tronchi d’albero a passo di marcia, battendovi sopra colpi di martello. Le bóre che accompagnavano la processione del venerdì santo erano almeno sette, ma vi furono anni in cui superarono la decina. Erano tronchi d’abete rosso, tagliatinei boschi che fanno corona alla piana di Storo. A metà Quaresima, i giovanotti salivano in montagna a “far la bóra”. Era un rito che dava la svolta alla Quaresima, che introduceva al triduo più sacro della religione cristiana. La sera del venerdì santo, in corrispondenza delle sette fontane del paese si allestivano i quadri della via Crucis. Una rievocazione dei “quadri” della passione, dal tradimento di Giuda al lavamàn di Pilato, dal Cireneo ai due ladroni, alla crocifissione. I giovanotti vestivano i panni da consumati attori. Il corteo, con una gigantesca croce, passava tra le case, accompagnato dal rombo ritmato dei colpi battuti sulle bóre. Il primo segnale lo dava il batedùr, il capo dei battitori, e quell’incarico era considerato di grande merito. I tronchi d’abete erano battuti, ritmicamente, con mazze di legno.
Era il segno esteriore del lutto, che già si manifestava nei Mattutini dei tre giorni della Passione. Ad un segnale convenuto (sul messale c’era la scritta, in lettere rosse, “fit fragor”), i ragazzini che calzavano scarpe con suole di legno chiodate (le sgàlbare, o dàlmedre o sgàlmere), battevano i piedi e con bastoni usavano i banchi della chiesa come un tamburo. I canonici della Cattedrale, a Trento, si servivano del voluminoso breviario, che veniva picchiato più volte sul legno, negli stalli del coro.
A Storo, scriveva Aldo Gorfer (1980), “il coro ritmato delle bóre era un dissonante epodo di diverse tonalità, cupo, penetrante, enorme. Le bóre, rette orizzontalmente dai ragazzi, si ponevano ai lati della processione, la scortavano. Il clamore assumeva la vibrazione di una batteria di tamburi. Riempiva il borgo. Levava la pelle dall’emozione. Scandiva l’andare solenne del corteo per le contrade illuminate, con i confratelli vestiti di rosso ciclamino come i vescovi. La lunga fila degli uomini e delle donne rigorosamente separati. Alle fontane si faceva sosta per ammirare le belle statuine della Via crucisilluminate da torce. Succedeva che il gelido vento che tirava dalla gola del Pàlvico flagellasse le carni del Cristo e dei ladroni che, per via della verità storica, dovevano essere in mutande, e che costoro smoccolassero cordialmente dall’alto della croce onde sollecitare le pie donne curiose a riprendere l’ordine della processione. La processione faceva ritorno alla chiesa percorrendo la Via de Sura (via S. Andrea) dopo aver toccato tutte le “quadre”. In cima alla gradinata della piazza selciata, le bóre si allineavano presso il muro di cinta intensificando il battere. La processione le sfilava davanti irta di croci e di lumi finché non finiva ingoiata dal grande portale cinquecentesco di granito di S. Floriano”.
Terminata la processione, i battitori affrontavano il gelo e la fatica con abbondanti libagioni. Non di rado facevano la tónda, la sbronza, anticipando di qualche ora il Gloria, in altre parole il brindisi della resurrezione. Prendendo a pretesto supposte intemperanze, la processione delle bóre fu soppressa prima della seconda guerra mondiale dal parroco Luigi Colmano (1891-1956). La tradizione è ripresa al tramonto del XX secolo, ancora con la grande croce di legno portata per le vie del paese, tra i lumini e le orazioni, ma senza il battito delle bóre.
Lumini nei gusci di lumaca
Con le bóre allineate sul sagrato della parrocchiale di S. Floriano, la notte della morte di Cristo, a Storo, s’illuminava di mille fiammelle ricavate dai gusci delle lumache (gli omàc). Riempiti con olio di noce e uno stoppino, erano accesi sui davanzali e lungo le staccionate. Anche a Fiavé, nella pieve di Lomaso, la sera del venerdì santo con i gusci delle lumache (le sbrògole) si illuminavano le fontane accanto alle quali passava la processione. I gusci di lumaca erano usati come lucerna pure in altri paesi delle Giudicarie. A Bersone, nella Pieve di Bono, servivano per illuminare il cimitero la notte d’Ognissanti.
Nel Bleggio, la processione del venerdì santo era scandita con due mazze di legno che battevano un tronco. Era detto baticiòch. In Val di Cavedine al passaggio del corteo si accendevano falò nei campi. Erano le stoppie della pulizia della campagna raccolte a mucchi prima della semina nell’incipiente primavera. I falò avevano un duplice scopo. Accompagnavano la rievocazione della passione di Cristo, e ripulivano la campagna. La cenere finale era interrata come concime.
A Vezzano la sera del venerdì santo si andava al santuario campestre di S. Valentino. I cantori intonavano il miserere, ad ogni versetto i devoti rispondevano con un lagrimevole “popule meus”.Nella valle del Tesino, i fuochi del venerdì santo erano fatti con palle di stracci imbevuti di petrolio e tenute in mano dai ragazzi con lunghi manici di fil di ferro. Le facevano roteare creando giochi di luce nel cielo.
Anche in vari paesi della Val Lagarina la processione notturna del venerdì santo era “illuminata” da due grandi croci. Sui bracci erano collocati gusci di lumaca usati come lumini che brillavano nella notte. Nei pali delle due croci allestite a Santa Margherita di Ala, si collocavano i tutoli (mosegòti) delle pannocchie del granoturco. Erano imbevuti di petrolio e poi accesi. A Borghetto, sulle rive dell’Adige, la notte del venerdì santo erano accesi i falò con i sarmenti della potatura delle vigne. Sulla piazza antistante la parrocchiale, con lumini di cera era disegnata una grande chiocciola. Il gasteropode, che torna ad uscire dal guscio dopo il gelo dell’inverno, è stato preso a simbolo della resurrezione di Cristo.
Le “sacre rappresentazioni” del Settecento
Fino alla metà dell’Ottocento, a Chizzola di Ala sopravvisse la “processione dei mistèri”. Si svolgeva all’interno della chiesa la sera del giovedì santo. A Crosano, Cazzano e Corné analoga processione si teneva invece il venerdì santo.
“Inginocchiati su due alte panche vicino alla porta, uno per parte, due giovani vestiti da angeli cantavano su un’aria lamentevole, simile a quella dei rispetti popolari, le ottave della Rappresentazione, mentre dei ragazzetti, partendo dall’altar maggiore, uno dietro l’altro, traversavano lentamente la chiesa per la sua lunghezza, portando ognuno in cima ad una pertica vari misteri, di legno o di carta pesta, nell’ordine in cui erano nominati nel canto”. (Albino Zenatti, 1883)
Ad Ala, si ricorda ancora la processione della notte del giovedì santo. Istituita nel 1634, era proposta raramente anche perché molto elaborata. Si sa che la “sacra rappresentazione” andò in scena negli anni: 1647, 1704, 1713, 1728, 1768, 1773 e 1786, quando fu proibita, come molti segni della religiosità popolare, dall’imperatore d’Austria Giuseppe II. Nel corso della processione erano rappresentati quadri del vecchio e nuovo Testamento, dalla cacciata degli angeli ribelli alla morte di Cristo.
Durante una di queste rappresentazioni, uno spettatore particolarmente sensibile, coinvolto emotivamente nel sacro dramma, quando vide Pilato lavarsi le mani gridò: “Fiòl de ‘na vaca, per mi làvete anca i c…..”. Pilato, offeso, si scagliò contro lo spettatore, ne nacque un tafferuglio e la processione quell’anno fu sospesa.
Gli strepiti e il fragore
A Javré, ed in altri villaggi della Val Rendena, i ragazzi trascinavano fino nel greto del Sarca le catene del camino. Ottenevano in tal modo il duplice effetto di pulirle dalla fuliggine e di richiamare sinistramente, con quel rumore sordo e metallico, la morte di Cristo. Quale compenso per la strózzega(il trascinamento delle catene nel Sarca), i ragazzi ricevevano uova sode, colorate, da usare poi come “bersaglio” nei giochi di Pasqua sulla piazza davanti la chiesa. A Trento, fino al XIX secolo, cinquanta croci erano trascinate alla stessa maniera sul selciato delle vie cittadine.
Scriveva Michel’Angelo Mariani (1673): “Oltre il Crocifisso miracoloso, che si venera in Duomo, si porta ogn’anno nella domenica di Passione la Sacra Spina in processionale solennità co’ l’intervento di tutta la città, Capitolo e lo stesso Vescovo e Prencipe. E la notte del giovedì Santo tra un apparato di lumi per tutta la città si rappresenta la Passion del Signore così al vivo, che non può non restar commosso il cuore da quel grande spettacolo; tanto più in vedendo una masnada di soldati, e satelliti, quali armati di furor più che di ferro, maltrattano lo strascinato Giesù (che suol’essere un Sacerdote) portante la croce; e in udendo altresì una schiera d’Angioli spiegar ciascuno con doglioso metro i Misterij che portano del Redentore; seguendo in gran numero li Battuti, e molta nobiltà in habito di penitenza con torcio in mano.
Anco la notte del venerdì santo si fa solenne processione per tutta la città parata di lumi, portandosi in trionfo il legno di santa croce preceduto da simboli e trofei con una fila di 50 croci, che strascinate a terra fanno homaggio; dietro venendo con lumi le Confraternità in habito rosso, come pur’ in Cappe e cotte il clero, e Capitolo della Cathedrale con choro di musici, e d’Angioletti. Si fabbricano poi i sepolcri di Christo a gara d’inventione e solennità in tutte le chiese, tra quali quest’anno 1671 s’è fatto notar quello de’ Padri Giesuiti per una finta machina di teatro eretto a tre ordini di prospettiva…”.
Ricordava (1961) G. P. Zanettin che, a Cembra, il venerdì santo si rappresentava la Passione nel prato detto “del Rosari”. Fu proibita nel Settecento e sostituita con “i Mistèri”, soggetti di cartapesta con scene della Passione. Furono vietati dal Comune nel 1868. Seguirono “le late”, le pertiche, in cima alle quali erano issati gli strumenti che si credevano usati sul Golgota (chiodi, martello, flagello e altro). Caddero in disuso nel 1914. A loro volta furono sostituiti dai “trasparenti”. Venivano appiccicati alle finestre che davano sulle vie percorse dalla processione. Anche questi furono abbandonati negli anni Cinquanta del XX secolo.
“Nella villa di Meano era celebrata la processione del venerdì santo, nella quale uno vestito da Cristo, a pié scalzi, portava la croce circondato dai Giudei che lo beffeggiavano e lo oltraggiavano; essendo poi degenerata in una vera mascherata, come ebbe a dire al vescovo lo stesso parroco, malgrado le replicate suppliche dei parrocchiani, fu proibita nel 1776”. (E. Perugini, 1908)
Orazioni segnate su una corda
Nel Banale, numerosi lasciti testamentari indicavano il venerdì santo quale giorno preferito per la distribuzione di pane o di sale. A Fiavé, nel Lomaso, il sale era distribuito solo ai poveri; il pane era invece offerto ai vicini il giorno di Pasqua. Analoga distribuzione avveniva anche per le Rogazioni.
Chizzoli di pane erano dati, al tempo delle Rogazioni anche a Stenico. Nel 1831, a Lundo c’erano 43 legati o fondazioni, taluni risalivano addirittura ai tempi della peste (1630). In cinque legati si contemplava la distribuzione del pane il venerdì santo. “La carità di biada da farsi pane” andava divisa “alli poveri di Gesù Cristo” nel giorno della sua crocifissione.
Nel Bleggio, “alla gioventù che fa la solenne comunione pasquale in parrocchia” era distribuito un pane, giusto il legato di Antonio Pellegrini di Bono (1888). In tempo pasquale, nelle Valli Giudicarie veniva recitata la quarantina. Ogni giorno un Padre nostroin più sino a quaranta orazioni giornaliere. L’avvenuta recita era segnata con uno spago, legato alle bretelle o alla cintura dei pantaloni, al quale ogni giorno era aggiunto un nodo per ricordare il traguardo delle invocazioni. “Alla benedizione del fuoco pasquale [il sabato santo] tra le fiamme veniva gettata anche la cordicella dell’avvenuta e mantenuta promessa. La persona per la quale venivano recitati i Padre nostro, avvertita in anticipo e consenziente, regalava poi al ragazzo [che si era impegnato nella maratona devozionale] qualche indumento di vestiario di cui aveva bisogno”. (Paolo Scalfi Baito, 1984)
A Bocenago e in altri paesi della Val Rendena, la cordicella annodata per “annotare” le orazioni recitate era detta laza. E quando veniva bruciata, al sabato santo, se il fumo andava verso terra si riteneva che le orazioni fossero state dette con poca convinzione. Anche in Val di Fassa, nel corso della Quaresima si recitavano i Pater noster.
“In tutte le case, ad una parete della stua era appesa una tavola di legno quadrata di circa trenta centimetri di lato, sulla quale erano intagliati quarantanove quadratini. […] A partire dal mercoledì delle ceneri era segnato in cifre romane il numero dei pater noster che si dovevano recitare ogni giorno: da tre a quaranta, secondo un ordine detto appunto l’ordin de la carèisema. Quest’usanza fu rispettata rigorosamente sino agli anni precedenti la prima guerra mondiale”. (Simon de Giulio, 1983)
Il ritardo degli oli del giovedì santo
Gli oli benedetti il giovedì santo, in Cattedrale a Trento, dovevano essere portati nelle parrocchie, anche le più sperdute, per i riti del sabato. Talvolta, il messo mandato a prelevarli arrivò in ritardo e la popolazione dovette attendere molte ore in chiesa. Accadde, per esempio, al principio dell’Ottocento, a Spiazzo Rendena, come ricordava il notaio G. A. Ongari nelle sue “Memorie e notizie di Rendena” (1809):
“Il sabbato santo, primo d’aprile, è nato l’accidente che l’oglio santo è arrivato soltanto dopo la Messa, ossia dopo pranzo, per mano dell’eremita Chesi, che ha dovuto fermarsi a Tione fino al mezzodì a aspettarlo; epperò la mattina fu fatta solo la benedizione del fuoco e del cereo, e dopo terminate le Profezie si cantò la messa. Intanto che si cantava l’Exultet jam angelica turba Coelorum arrivò Luigi Alimonta che in tutta fretta era stato col suo cavallo a Tione, e portò la nuova che l’oglio santo non era ancora gionto; onde io sul momento uscii di chiesa e portai questo avviso ai commessi delle Cure [curazie] che aspettavano il detto oglio santo, e li esortai che andassero subito nelle loro chiese, acciò i signori curati fossero in grado di far le loro funzioni e celebrare la S. Messa. La benedizione poi del Sacro fonte, qui nella parrocchiale, fu fatta la sera stessa del sabbato santo dopo terminata la questua; ma nelle Cure forse la differiranno al sabbato delle Pentecoste. Un accidente simile, da mio ricordo, non è mai accaduto”.
Durante la Quaresima del 1828, la ritardata consegna degli oli si verificò anche nel Vanoi. Tant’è che tra il parroco di Canal S. Bovo, Pietro Chesi (1772-1839) e il decano di Primiero, Giovanni Battista Braito (1764-1842), vi fu un vivace battibecco. Quelli di Canale, infatti, non intendevano pagare 9 troni del Tirolo (“che sono dieci e quattro carentani d’Impero”). Era il contributo richiesto dalla parrocchia di Primiero che, tutti gli anni, inviava a Trento il sagrestano per prelevare gli oli santi in Cattedrale.
Un capretto per il curato
Per annunciare la Pasqua, la sera del sabato santo, si accendevano falò sulle alture attorno ai villaggi. Il primo capofamiglia che faceva battezzare un figlio, dopo la rinnovazione del fonte, doveva regalare un capretto al curato il quale, di solito, girava ai poveri un importo di pari valore. A Pasqua, nel villaggio di Bono di Bleggio era consuetudine far benedire e uccidere due agnelli, la cui carne sarebbe poi stata distribuita a tutti gli uomini della comunità. Lo contemplavano i “Capitoli e Regolamenti della Villa di Bo”.
Gli ultimi tre giorni della settimana santa figuravano tra quelli “vietati ai pubblici divertimenti”. Non si potevano tenere rappresentazioni teatrali nemmeno al Corpus Domini e il 24 dicembre. Il suono del Gloria avveniva la mattina del sabato santo, tant’è che è rimasta l’usanza di “far el gloria”. Adesso il sabato mattina fabbriche e uffici sono chiusi, pertanto il Gloria, si festeggia il venerdì santo. Un brindisi con vino bianco accompagnato da una fetta di colomba pasquale. Un tempo si mangiava la fugazza, la focaccia. In Val Rendena, a Pasqua le donne portavano “in chiesa di buon’ora un gran pane rotondo, dal buco in mezzo (bozzolan) e alcune ova sode che [erano] benedette dopo la messa bassa e mangiate nelle famiglie prima della solita colazione”.
Nella Valle di Primiero si usava dire “se no ‘l piou se ‘l oliu el piou sui ovi” (“se non piove sull’olivo pioverà sulle uova”), cioè se non pioverà la domenica delle Palme farà brutto a Pasqua. In Primiero si credeva pure che “bevendo l’acqua durante il suono delle campane che diffondevano il Gloria del sabato santo, si sarebbe goduta buona salute per tutto l’anno venturo”. Anche in altre zone, dalla Val di Cembra alla Val di Sole era usanza portare a casa un bicchiere di acqua benedetta. Con questa i devoti si bagnavano gli occhi.
Nel mondo contadino era diffusa l’usanza di bagnarsi gli occhi con il vino bianco usato per il brindisi del “Gloria” pasquale. Quando suonava la campana, ovunque si trovassero, i contadini intingevano un dito nel vino e si segnavano le palpebre. Poiché Cristo aveva lasciato le tenebre del sepolcro ed era tornato alla luce, erano convinti che il vino del “Gloria” li proteggesse dalla cecità. L’usanza era radicata in Valle dei Laghi, in Valle dell’Adige e pure in Valsugana. Fu recuperata nel 1998 da Giuseppe Morelli nell’ambito della mostra del vino Nosiola che la settimana santa si teneva a Castel Toblino. In Val Lagarina si credeva che le piante sarebbero cresciute meglio se l’orto fosse stato seminato durante la settimana santa.
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