Nel Trentino, che contava 314 mila abitanti, l’inverno del 1847-1848 fu caratterizzato da freddo intenso e fame diffusa. L’autunno precedente, l’Adige aveva rotto gli argini e allagato le campagne a nord della città. La carestia aveva lasciato vuoti i granai. La popolazione trentina aveva patito mesi d’angoscia analoghi a quelli dell’inverno del 1816, ricordato ancor oggi come “l’an de la fam”. A marzo c’erano stati i moti rivoluzionari di Milano e Venezia. Il 19 marzo, S. Giuseppe, a Trento c’era stato l’assalto all’ufficio del Dazio e nelle strade si erano formate le barricate. Il governo austriaco aveva proclamato la legge marziale. L’Europa era dilaniata dalle rivoluzioni liberali e l’impero multinazionale degli Asburgo pareva sull’orlo del collasso. L’eco dei tumulti, cominciati a Parigi alla fine di febbraio, dilagati il 13 marzo a Vienna dove, in autunno, sarebbe salito al trono il diciottenne Francesco Giuseppe, non era ancora arrivata a Capriana. Il villaggio “da capre”, isolato fra la val di Cembra e la valle di Fiemme, si poteva raggiungere solo con arditi sentieri di montagna che risalivano dalla piana dell’Adige ai Pochi di Salorno. È sullo sfondo di tale situazione che va inquadrata la singolare vicenda umana di Maria Domenica Lazzeri da Capriana, nata il 16 marzo 1815, l’anno del Congresso di Vienna, morta nei giorni delle rivoluzioni liberali del 1848.
La Meneghina, com’era chiamata nel villaggio cembrano-fiemmese, cessò di vivere alle 8 di mattina del 4 aprile 1848. Per Maria Domenica Lazzeri, che aveva solo 33 anni, non ci fu il consueto suono della campana “a morto”. Era un venerdì santo e per tradizione le campane restano mute. Tuttavia, la notizia si propagò in un amen. Troppo nota la protagonista, troppo “chiacchierata” la sua “straordinaria malattia”.
La povera donna, infatti, aveva vissuto gli ultimi 14 anni della sua travagliata esistenza terrena senza mangiare né bere, sempre a letto, in una stanza con le finestre aperte: d’estate e d’inverno. La popolazione del villaggio e della valle la chiamava “la beata” perché sul corpo ischeletrito le erano comparse piaghe che sanguinavano ogni venerdì. Coloro che avevano potuto osservare si stupivano che il sangue risalisse verso le dita dei piedi. Poiché la Meneghina era sdraiata a letto, il liquido avrebbe dovuto scendere. Parlare di “miracolo”, a quel punto, e definire la povera donna una “beata”, per il popolino fu istintivo.
Oggi, probabilmente, la medicina saprebbe dare una risposta convincente. Gli psichiatri ed i neurofisiatri spiegano che la mente umana ha capacità sorprendenti. Compresa quella di far comparire piaghe che riproducono le stimmate del crocifisso. Quanto alla prolungata astinenza dal cibo, parlare di anoressia è persino banale. Si legga in proposito il volume di Rudolph Bell, “La santa anoressia – digiuno e misticismo dal medioevo a oggi” (Laterza, 1998). Allo stesso modo le analisi cliniche oggi potrebbero far risalire i dolori addominali e la conseguente inappetenza alla celiachia, una malattia causata dal glutine. Maria Domenica Lazzeri era figlia di un mugnaio e le prime crisi, violente, si manifestarono a 14 anni mentre dava una mano nel molino di famiglia.
La Meneghina fu sepolta sei giorni dopo, il 10 aprile, “con straordinario concorso di popolo limitrofo e posta distintamente in una doppia bara, una delle quali di ben maturo larice, in una profonda fossa toccante il muro del cimiterio verso Valfloriana, quasi a linea retta dell’angolo della chiesa. […] Munita dei sussidi di Chiesa, sopportò con mirabile rassegnazione la misteriosa e dolorosa sua malattia decantata in tutta Europa, lasciando molto da desiderare di lei”.
Don Michelangelo Santuari, che tenne la curazia di Capriana dal 1822 al 1862, scrisse una “Annotazione sulla malattia e qualità della morte (della Meneghina)”. “Particolarissima malattia. Dalla Pasqua del 1834 fino alla morte stette con l’istessa posizione supina, colle mani e piedi aggruppati, i quali ogni venerdì dai 10 Gennajo 1835 spandevano sangue assieme colla corona di spine nel capo, all’aria aperta; a detta dei domestici non ha mai preso cibo, né bevanda di sorta; solo ogni tratto di tempo si comunicava, unico cibo che si sappia avesse ricevuto in tutta la malattia. Fu visitata da moltissimi Signori di tutta l’Europa”.
La “curiosa” malattia della Meneghina fu documentata pure da due relazioni mediche; dai resoconti d’illustri personaggi dell’epoca; dall’interesse dello stesso principe vescovo di Trento, Tschiderer. Il quale, peraltro, non salì mai nel villaggio dell’alta val di Cembra, ma fu costantemente informato dai preti che operavano nella valle e riferì puntualmente all’autorità politica che lo aveva interpellato, più volte, nel merito.
Maria Domenica Lazzeri aveva manifestato i primi sintomi d’isteria e d’inappetenza il 3 marzo 1828, qualche giorno dopo la morte del papà. Già in precedenza era stata poco bene. I suoi, di casa, davano la colpa a un episodio, accaduto, una sera, al molino di famiglia dove la Meneghina, da sola, stava macinando farina. Raccontò poi che due sconosciuti avevano ripetutamente battuto alla porta. Terrorizzata, era stata trovata dai suoi tutta tremante, rannicchiata in un angolo buio del molino.
Quando si era manifestata la fase anoressica, i familiari avevano chiamato il dr. Leonardo Cloch, all’epoca medico condotto di Cavalese, più tardi “direttore del civico Spedale di Trento”. In una relazione per gli “Annali Universali di medicina” di Milano (1837), il medico avrebbe rievocato quella prima visita. “Siffatta infermità, dietro il parere del di lei medico curante [Antonio Joris], chiamavasi “febbre accessionale”, e noi […] incliniamo a credere che sia stato un “grave isterismo”. […] In tutto il corso del suo malanno non poté prendere che parchissimo nutricamento di cibi acidi e vegetabili”. Il dr. Cloch aveva prescritto solfato di chinina in polvere e decotti di corteccia peruviana. Peraltro con scarsi risultati.
La Meneghina restò a letto alcuni mesi. Non si sa se tale malattia scomparve, o rimase in forma attenuata e latente, tuttavia i medici e gli stessi familiari parlarono di guarigione. Nel frattempo erano comparse piaghe sanguinanti alle mani e sul collo dei piedi.
Il dr. Cloch, che aveva incontrato la Meneghina nel 1834, compì una nuova visita a Capriana tre anni dopo. In quell’occasione “essa stessa mi assicurava – scrisse il medico – di avere una gran piaga al costato che scrupolosamente teneva celata, e molte altre minute lunghesso la schiena, le quali ogni venerdì menano, al par delle visibili, vivo sangue. Mi assicurava, che dopo i due di maggio del 1834 più non riposò, più non bevette stilla di acqua, più non ingojò briciola di pane. Mi assicurava inoltre di essere di continuo martoriata da crudeli dolori”.
Non sono infrequenti episodi di mistici con le stimmate, o di persone anoressiche che riescono a sopravvivere per molto tempo senza toccare cibo. Nell’Ottocento, otto donne vissero parecchi anni senza mangiare né bere. Scrive R. M. Bell: “La santa costretta a letto è una costante nell’agiografia. […] Mentre gli uomini potevano raggiungere la santità in quanto campioni della fede addetti a diffondere il verbo nel mondo, la via femminile al riconoscimento ufficiale confinava le donne in fondo a un letto”.
Secondo taluni, le stimmate e l’anoressia prolungata porterebbero queste donne a realizzare un modello di protagonismo femminile. A suscitare in pratica quell’attenzione attorno alla loro persona che, diversamente, non avrebbe motivo di essere. Fu questa l’aspirazione inconscia di Maria Domenica Lazzeri? In verità, quando si fece insistente la curiosità attorno alla sua anomala situazione, fu lei stessa a chiedere al vescovo Nepomuceno de Tschiderer (1835-1860) di far cessare le visite di estranei.
Nel corso di tredici anni, a Capriana vi fu un andirivieni di persone da mezza Europa “munite di permesso vescovile”. Erano prelati e scrittori ma anche nobili e viaggiatori, attirati da articoli di stampa e da lettere che parlavano con insistenza delle “tre mirabili Vergini del Tirolo”. Di solito, le comitive di tre o quattro persone passavano da Caldaro per far visita a Maria von Mörl (1812-1868), un’altra “estatica tirolese”, poi risalivano la montagna sopra Egna per raggiungere il villaggio della Meneghina. Nei resoconti che pubblicarono su giornali tedeschi, francesi e inglesi, e perfino su un settimanale in Australia, narrarono le “meraviglie” di una povera donna la quale non mangiava alcunché, aveva le stimmate che sanguinavano abbondantemente il venerdì e stava rannicchiata a letto, in una minuscola stanza con le finestre sempre aperte. Deglutire le procurava dolori lancinanti e l’ostia della comunione, che riceveva ogni settimana, restava sulla lingua per più giorni.
Dopo la morte della Meneghina, Capriana divenne una sorta di santuario, con processioni di devoti e di curiosi alla casa natale della “beata”. Nel corso degli ultimi decenni vi sono stati vari tentativi per far salire davvero il primo scalino dell’altare a Maria Domenica Lazzeri. Se l’arcivescovo Gottardi aveva sempre tergiversato, il successore (Sartori) avviò in pompa magna il processo diocesano per la beatificazione della Meneghina. Già era riuscito (sia pure con una spesa di due miliardi di lire) a portare a Trento il papa Woytjla, prodigo come pochi nel proclamare santi e beati in quantità industriale (1338 beati, 482 santi sotto il suo pontificato). Tant’è che, alla fine aprile del 1995, Giovanni Paolo II (oggi santo pure lui) “beatificò” il vescovo Nepomuceno de Tschiderer. Proprio quello vissuto al tempo di Maria Domenica Lazzeri.
Nella relazione predisposta per il processo diocesano (1994), don Albino Ronco, ordinario di psicologia all’Università pontificia Salesiana di Roma, scrisse: “Come impressione globale si può dire che ci troviamo davanti a una persona gravemente malata, anche dal punto di vista nervoso, che tuttavia, nei periodi di sanità, ha una vita umanamente e spiritualmente sana, intensa ed elevata”. Quanto all’anoressia: “Generalmente, l’impossibilità di assumere nutrimento è un sintomo di grave disturbo psichico. Ma il fatto che a questa privazione, prolungata per anni, non segua la morte, come sarebbe naturale, non permette di ricondurre questo fenomeno a sintomo patologico. Certo, dal punto di vista fisiologico, restano le difficoltà del normale metabolismo, da cui dipende anche il nutrimento del cervello e la relativa funzionalità”.
Morto il vescovo Sartori e divenuto anoressico pure l’appoggio finanziario della diocesi, il tentativo di beatificare la Meneghina si è arenato. A Capriana, da qualche anno, il 4 aprile non si fa più nemmeno festa. I resti di Maria Domenica Lazzeri furono esumati l’11 settembre 2000 e collocati in un’urna, ai piedi dell’Addolorata, all’interno della chiesa di Capriana. Frammenti di ossa, fragili e ingialliti (“parevano finferli secchi” commentò il parroco Giovanni Florian), e una cinquantina di chiodi arrugginiti. La curiosità morbosa di un tempo è svaporata con la secolarizzazione. D’estate, qualche turista di passaggio legge un foglietto su una bacheca, domanda informazioni. Oltre il paese, nella valle del rio Bianco, il molino della famiglia Lazzeri, restaurato e divenuto un museo, macina per i viaggiatori una storia incredibile. Accaduta tanto tempo fa.
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