A un mese dal via all’invasione dell’Ucraina da parte delle armate russe; dopo settimane di bombardamenti e di appelli alla pace; giorni di angoscia e di notizie di stragi; immagini di devastazione, gesti straordinari di solidarietà nei confronti di un popolo massacrato e costretto alla fuga, viene a proposito l’acuta ricostruzione storica formulata da Renzo Fracalossi sulle origini dell’Ucraina.
Se è la continuità che costituisce la vera essenza della storia, pur nella consapevolezza dell’unicità di ogni evento in sé, è difficile seguire il debole ragionamento di chi vorrebbe ricondurre la creazione dell’Ucraina alla “korenizatsiya”, cioè a quella politica di promozione di comunità nazionali segnate da specifiche identità etnico-culturali, voluta da Lenin negli anni ‘20 per consentire ad alcune regioni forzatamente russificate dal regime zarista l’uscita da profonde arretratezze economiche, con un’adesione più convita alla costruzione dell’U.R.S.S..
Nell’affannosa ricerca di giustificare l’ingiustificabile, la manipolazione della storia tocca punte decisamente incredibili, dimenticando come l’Ucraina abbia una storia plurisecolare e, a ben vedere, forse molto più antica di quella della Russia che, per certi versi, appare solo conseguente.
Originata dall’incontro fra popolazioni scite-sarmatiche con i greci, che penetrano economicamente i territori a nord del Mar Nero ed aprono la strada ad ulteriori colonizzazioni come quelle di Mitridate il Grande nel I sec. a.C. e quelle di Roma prima e di Bisanzio poi, si viene formando una comunità sulla quale si innestano via via altre contaminazioni etniche, che occupano l’immensa pianura rispondente, nel tempo, al nome slavo di “u krajna”, ovvero “terra sul confine”.
Quell’iniziale comunità greco-iranica viene, in breve, travolta da una successione di invasioni barbariche: i goti dal nord baltico (200 – 370 d.C.) e poi gli unni dall’Asia e poi ancora gli àvari, i cazari e le tribù slave orientali che si installano in quella geografia che ha al suo centro la città di Kiev.
Nell’anno 862 la “Cronaca di Nestore” evidenzia l’ulteriore innesto di gruppi sociali provenienti dalla Scandinavia – i vichinghi o variaghi – che danno vita ad una sorta di regno, ancor oggi sospeso fra storia, leggenda e mito e guidato dal vichingo Rjurik e dalla sua discendenza che vede nel principe Oleg (882 d.C.) conquistatore di Kiev, colui che si impossessa della nevralgica città posta a snodo della “strada dai variaghiai greci”, attraverso la quale la Scandia si collega con Costantinopoli. Nasce così la storia della Russia di Kiev, che si plasma poi nei regni di Vladimiro il Santo, durante il quale viene introdotto il cristianesimo e di Jaroslav il Saggio e che giunge, nel 1054, al suo massimo fulgore, per declinare nei decenni successivi, fino a quando nel 1240, Kiev viene rasa al suolo dall’invasione mongola, che impone il suo giogo su tutta la Russia.
Solamente cento anni prima, in una “Cronaca” del 1147, compare il nome di Mosca, modesto villaggio del principato di Suzdal, alleato, quest’ultimo, con i potenti principi ucraini di Novgorod. E così nella seconda metà del XV secolo, la storia della Russia perde il suo carattere ucraino, per acquistare quello moscovita, connotato soprattutto dal legame fra potere e chiesa e dall’assolutismo, come quello del “fondatore” del regno russo Ivan III (1462 – 1505) che, sposando nel 1472 la nipote dell’ultimo imperatore bizantino, da inizio al mito imperialista della “terza Roma”, secondo il quale la Russia sarebbe l’erede della civiltà romano-bizantina ed in nome di questa dovrebbe conquistare larga parte dell’Europa o come quello di Ivan IV “il Terribile” (1530 – 1584), primo sovrano russo ad essere incoronato czar.
Questi i fatti storici, che confermano Kiev e la sua lunga vicenda come il vero nucleo fondativo della Rus’, delle sue plurali identità e dei legami con l’Europa. Distruggere Kiev è quindi una sorta di “matricidio” russo, del tutto incomprensibile all’occhio della storia, al pari della repressione poliziesca che arresta una ragazza colpevole di tenere in mano un tulipano giallo, un modesto fiore che sembra far paura a Putin. Preda del mito zarista, egli mescola trono e altare, si auto-investe del ruolo di restauratore del passato, soffre di un vittimismo ingiustificato e sogna il ripristino di quell’autocrazia che porta Ivan IV a scrivere: “Tutti i sovrani russi sono autocrati e nessuno ha il diritto di criticarli. Il monarca può esercitare la sua volontà sugli schiavi che Dio gli ha dato. Se non obbedite al sovrano, anche quand’egli commette un’ingiustizia, non solo vi rendete colpevoli di fellonia, ma dannate la vostra anima perché Dio vi ordina di obbedire ciecamente al vostro principe.”
Parole di seicento anni fa, che paiono scritte oggi.