C’è un villaggio, alla periferia del Trentino, che nel giro di una notte, come scrive Giuliano Beltrami, ha aumentato la popolazione del 25%. È Droane, frazione del comune di Valvestino, un territorio che fino al 1934 ha fatto parte della provincia di Trento. Poi Mussolini, sensibile alle istanze degli industriali bresciani che avevano bisogno del carbone di legna ricavato dai faggi della Val Vestino, ha scippato quella valle al Trentino e l’ha aggregata alla provincia di Brescia.
Incastonata fra il lago di Garda e il lago d’Idro, al censimento di cento anni fa (1921) la Val Vestino (oggi divisa in due comuni: Valvestino e Magasa) aveva una popolazione di 1.512 abitanti. Oggi si raggiungono a malapena le 300 unità.
Ecco perché fa notizia la nascita di una bambina, Federica, venuta al mondo in questi giorni nel piccolo mondo di Droane, dove vivono i genitori – Giancarlo e Alice – e un’altra persona. Non accadeva dal 1952 che la cicogna facesse sosta a Droane.
La notizia è stata portata alle luci della cronaca da quello straordinario cronista che è Giuliano Beltrami. Sull’Adige, per il quale scrive da una vita, ha pubblicato un piè-di-pagina che avrebbe meritato la “prima”. Per lo stile, inconfondibile, per la bella scrittura (la sua cifra) e per la notizia in sé. Questo l’incipit: “Ci sono storie minime capaci di diventare simboli. La nascita di una bambina è certamente una storia minima in un mondo che porta il peso di miliardi di persone. Ma se nasce in un villaggio di montagna, la montagna abbandonata perché avara di doni, dissacrata dai comportamenti e dagli interessi umani, rassegnata a vivere nell’emarginazione… Beh, diventa una storia simbolica. Siamo a Droane, villaggio minimo di una terra costellata di villaggi, la Val Vestino, trentina fino a 88 anni fa, poi passata alla Lombardia ma mantenendo l’eredità asburgica del catasto e quella del principe vescovo per la nomina del prete. Non per niente il più venerato è stato don Luigi Festi, da Fiavè, al quale hanno deciso di dedicare il tunnel che dovrebbe sbucare in valle del Chiese. Ma questa è un’altra storia, tutta da scrivere. Torniamo alla nascita e al simbolo, per ora solo un simbolo ma meglio di niente, della rinascita. Federica è venuta al mondo in questi giorni a Droane, dove non si sentivano vagiti di bambini da settant’anni: dal 1952. E con la sua nascita il villaggio (mica per niente definito minimo) aumenta del 25%: oggi è popolato da quattro persone […]”.
L’isolamento che ha costretto gran parte della popolazione a emigrare in questi ultimi due anni ha salvato i residenti dalla pandemia. Certo, due persone sono morte di Covid, ma fuori della valle dove erano state ricoverate per gravi patologie. Fossero rimaste a casa, probabilmente sarebbero state preservate dal contagio. Alla Val Vestino, terra un tempo trentina ma desiderosa di tornare sotto le ali dell’aquila di piazza Dante, quattro anni fa dedicammo il capitolo di un volume (“Le terre della fatica”) del quale riproponiamo qualche stralcio.
Val Vestino: un tunnel per sconfiggere l’isolamento
Fino al 1934 fu territorio della provincia di Trento. Fino al 1964 fece parte della diocesi di San Vigilio. Un referendum, nel 2008, ha sancito la volontà della popolazione di tornare al Trentino. I collegamenti sono difficoltosi; da qui l’idea di una galleria di cinque chilometri fra Turano e Bondone di Storo
Il Trentino è a nord, di là dalle montagne che imprigionano, come in una camicia di forza, cinquantuno chilometri quadrati di boschi, di valli, di pascoli e forre fra due laghi: il Garda e l’Idro. L’una e l’altra sponda, separate da una ventina di chilometri di strade e da mille tornanti. Se rendono lento e difficile l’accesso alla Val Vestino, negli ultimi decenni hanno favorito la fuga e accelerato l’esodo della maggior parte della popolazione. Il diagramma della crisi è impressionante: mezzo secolo fa i cinque paesi che formano il comune di Valvestino (Turano, Bollone, Moerna, Armo e Persone) superavano i mille abitanti (1.017 nel 1954). Oggi raggiungono a malapena le 180 unità. Magasa con Cadria, che nel 1951 aveva 512 abitanti, oggi ne conta meno di 140.
Nel 1852, Agostino Perini scriveva che la Val Vestino aveva 1.390 abitanti e 290 case. Cesare Battisti, nel 1909, riportava una popolazione complessiva di 1.429 persone. Sul finire del secondo millennio, la denatalità e l’emigrazione hanno preceduto o accompagnato le impennate della mortalità. La parità nati-morti (8) si ebbe nel 1971. Negli ultimi 15 anni, nel comune di Valvestino si sono avuti tre nati, 72 morti, 43 immigrati e 83 emigrati.
Dal 1950 al 2007, ben 1.080 residenti hanno lasciato la Val Vestino: 105 si sono trasferite in provincia di Trento, 718 in provincia di Brescia, 257 verso altre destinazioni. “In vent’anni c’è stato il crollo generale”, spiega Davide Pace, 32 anni, sindaco da otto. “Tanti sono emigrati in Val Trompia e in Val Sabbia. Si sono avvicinati al luogo di lavoro, perché qui prima facevano i carbonai. Con il crollo dell’utilizzo del carbone di legna c’è stato il disastro. Hanno mantenuto qui la seconda casa e rientrano quando possono. Bollone, che era il paese dei carbonai, nel 1963 aveva due scuole, 64 bambini e una popolazione che superava le trecento unità. Adesso sono rimasti in sette. Il paesino è perfetto, bellissimo, tenuto bene. Si riempie nei fine settimana e d’estate. Sono rimasti i vecchi”.
L’emigrazione è fissata nella memoria e sul volto rugoso dei sopravvissuti, di quel pugno di anziani che sono tornati a riaccendere i camini nelle stanze vuote da anni. Tornati a casa a spalancare le finestre nelle abitazioni ristrutturate con i risparmi di una vita da emigranti tra la Francia e la Svizzera. La fatica e la nostalgia dei migranti sono segnate nelle carte comunali e sono scolpite sulle lapidi di sei cimiteri nei quali affondano le radici e si alimenta la memoria di queste comunità.
Cominciata nell’ultimo ventennio del XIX secolo, l’emigrazione avviò quell’emorragia che ha dissanguato la Valle. Carbonai e boscaioli finirono in Francia, in Svizzera, in Austria e nella Bosnia-Erzegovina a fare i muratori e i manovali. Altri si avviarono sulle rotte, senza ritorno, del nord e del sud dell’America. Ci fu perfino qualcuno che finì a fare in minatore in Australia.
Lo testimonia la porticina dorata del tabernacolo della chiesa di Sant’Antonio abate, a Magasa: “Stefani Avellino e Giacomina fecero fare con l’oro importato dall’Australia nell’anno del Signore 1930”. Avellino Stefani era riuscito a tornare a Magasa con alcune pepite d’oro. Si raccontava che, per superare i rigidi controlli della miniera, fosse riuscito a nasconderle nella parte terminale dell’intestino. In ringraziamento d’aver portato a casa la pelle, Avellino donò quelle pepite alla chiesa del suo paese. Finirono per indorare il tabernacolo.
La fuga dalla Val Vestino è cominciata presto. Decine di muli e di asini scendevano ogni giorno ai porti di Gargnano e Bogliaco o a Idro per trasportare in Valle i generi di prima necessità. Nel 1894, l’avv. Claudio Fossati scriveva:
“Nessuna strada carreggiabile mette nella valle, ma il sentiero più antico e più comodo è certamente quello che da Toscolano sale a ritroso del fiume e mette, in poco meno di sei ore, a Turano. […] Tutti sanno leggere e scrivere. Le parrocchie delle Valli Trentine si onorano e si giovano dell’opera zelante e illuminata dei nativi di Vestino, i quali, a preferenza di ogni altra professione, si avviano al sacerdozio per approfittare delle disposizioni del benemerito Sebastiano Paride di Lodrone”.
Nel 1570 il Lodron aveva fondato un “Conventino” a Ponte Caffaro, trasferendolo poi (1595) a Salò. Vi trovavano un tetto e i primi insegnamenti i giovani della Val Vestino che avessero accettato di indossare la tonaca. Fra i molti che scelsero la via dell’altare si segnalò Pietro Porta (1832-1923), diventato prete nel 1856. Fu un illustre botanico. Moerna, suo paese natale, nel 2007 gli ha dedicato un museo (ricavato nell’ex caseificio turnario) dove sono esposte le sue ricche collezioni di piante essiccate. Don Pietro Porta visse al tempo in cui nella zona imperava il contrabbando di sale e di tabacco. Nel 1891, con un trattato fra Austria e Italia, la Val Vestino fu dichiarata “territorio extra doganale”, libera cioè da qualsiasi dazio d’importazione.
Alla fine del XIX secolo, dai boschi di faggio della Valle erano prodotti ed esportati “in Italia” 2.500 quintali di carbone di legna, la maggior parte consumati nella ferriera delle Camerate. In Val Vestino, pesi, misure e monete erano quelle di Salò.
L’Austria costruì una “bella e comoda” mulattiera fra il 1897 e il 1898. Il sentiero “dal confine con il Regno d’Italia, lungo il Toscolano, univa i sei paesi con otto ponti di cui sei di pietra: da Turano passando per Persone e Bocca Valle, metteva ai Baitoni”. Alla vigilia della Grande guerra, il governo regionale di Innsbruck provvide alla costruzione di acquedotti, scuole e caseifici.
La carrozzabile Navazzo-Turano, (chiamata “l’autostrada delle capre”) con l’allacciamento di Bollone, Armo e Magasa, fu aperta nel 1932; la carrozzabile Magasa-Cadria fu completata nel 1968. Dal luglio 1936 era stato istituito un servizio di pullman tre volte la settimana fra Turano e Gargnano. L’avv. Donato Fossati, da Salò, scriveva che la Val di Vestino era “cinta da alti dirupi e segregata dal mondo”. Già nel 1907, il giornale parigino “Le tour du Monde” (Il giro del mondo) l’aveva definita “una repubblica dimenticata fra l’Austria e l’Italia”. Nel 1683 una descrizione della valle di Vestino spiegava che dai tre rivi che scendevano fra le montagne, si formava un fiume il quale, oltre i confini della valle e prima di precipitare nel Garda, prendeva il nome di Toscolano.
Lungo quel corso, al ponte di Cola, nel 1959-1962 fu alzato uno sbarramento per la produzione di energia elettrica che diede forma al lago di Val Vestino (52 milioni di metri cubi), modellato tra fiordi e insenature.
Il distacco della Val Vestino dalla provincia di Trento e l’aggregazione con quella di Brescia fu deciso con Regio decreto del 15 marzo 1934. Restò la dipendenza dall’amministrazione giudiziaria trentina: pretura di Riva, prima, e Tribunale di Rovereto, oggi; l’ufficio del Catasto e del Libro fondiario (Riva del Garda).
La millenaria giurisdizione ecclesiastica tridentina, invece, cessò il 1° settembre 1964 quando i confini diocesani furono fatti coincidere con quelli politico-amministrativi del Trentino. In Curia, a Trento, non devono aver fatto le barricate per mantenere unita quella che i due visitatori vescovili, nel 1950, avevano chiamato “arida Valle di Vestino”. Lasciarono scritto che vi erano arrivati “equitantes per montes vallesque profundissimas atque loca asperrima” [cavalcando attraverso le montagne e valli profondissime e luoghi impervi].
A Magasa, la campanella della scuola è ancora sul campaniletto a vela dell’edificio che dal 2010 adesso ospita gli uffici del municipio e l’ambulatorio medico. Ha scritto Domenico Fava in un bel volume di Grazia Maccarinelli sull’emigrazione (“In cerca di fortuna”):
“Sono sparite le scuole elementari, prima nelle frazioni poi a Magasa, infine a Turano dove era stata concentrata, seppur in una pluriclasse unica, la popolazione scolastica della valle. Nel giugno 2010 la triste conclusione, restavano tre alunni: uno di Magasa e due di Valvestino e non si poteva più continuare. Stessa sorte è toccata alla scuola materna”.
I ragazzi (una dozzina) furono dirottati per la scuola a Idro, in Val Sabbia. Trequarti d’ora all’andata, altrettanti al ritorno. I bambini delle elementari erano trasferiti ogni giorno a Capovalle, una decina di chilometri da Turano. Non c’è più la farmacia, soltanto un dispensario due giorni la settimana.
I due comuni di Valvestino e di Magasa hanno un impiegato ciascuno. A Valvestino, Fernando Pace, nell’estate del 2017 ammise candidamente che aveva “cinquecento giorni di ferie arretrate”. La sua collega di Magasa, per poter prendere una settimana di vacanza era stata costretta a chiudere il municipio. Pur essendo una valle di anziani, non c’era una casa di riposo e non si conosceva la presenza di “badanti”.
Questa la spiegazione del sindaco di Magasa, Federico Venturini: “Quando un anziano, da solo, non ce la fa più, muore. Portarlo fuori dalla Valle, in una casa di riposo, vorrebbe dire accelerarne la fine”. Con il contributo della Comunità montana, i due comuni hanno ipotizzato l’avvio di un alloggio protetto per anziani autosufficienti. Nell’estate del 2017 n tutta la valle c’erano due negozi: uno a Turano, l’altro a Magasa; alcuni bar, due o tre ristoranti e qualche albergo.
“Negli ultimi anni qualcosa è ripartito perché stiamo puntando sul turismo”, disse il sindaco Davide Pace. “Il trekking, bike, escursionismo sui sentieri della Grande guerra, come volano di sviluppo e soluzione contro l’isolamento”.
Intanto, sull’altopiano di Cima Rest sono stati restaurati i vecchi fienili con la copertura di paglia a due spioventi, fatta alla maniera antica. Poiché non c’erano più gli artigiani di un tempo, il sindaco Venturini ha chiamato manodopera dalla Danimarca. E i tetti dei fienili, case-vacanza di proprietà del comune di Magasa, sono stati ricostruiti con precisione nordica.
Nel 1984 fu abbandonato il Fornello, un grappolo di case dove “il mite clima e la bontà del terreno permettevano la coltivazione del granoturco e di una rara qualità di patate” (“Giornale di Brescia”, 28 luglio 1984).
A Cadria, le abitazioni, ristrutturate, sono state comprate a prezzi stracciati da alcuni “turisti per caso”. Tra di loro anche l’ex direttore della televisione pubblica danese, che arrivava d’estate e per Capodanno.
Il sindaco di Valvestino, Davide Pace, racconta il tentativo di recupero di un fagiolo tipico: un baccello di richiamo come, sull’altro confine del Trentino, era accaduto con i celebri fagioli di Lamon. O con le chiocciole, ricercate dai buongustai. Lo statuto della valle, riconfermato a Villa Lagarina dal conte Carlo Ferdinando di Lodrone nel 1694 e trascritto nel 1808 dal notaio Domenico Persiali di Armo, contemplava già allora una “tassa delle lumache”. Ne dovevano essere consegnate: 300 al commissario di Lodrone, 200 al cancelliere, 150 al vicecancelliere e 200 al daziale.
La periferia della periferia del Trentino è proprio una valle “fuori dal mondo”. Cento chilometri da Trento ma lontana anni luce dal Trentino di cui ha fatto parte fino al 1934. Trent’anni dopo fu scorporata dalla diocesi di San Vigilio della quale era stata territorio ricco di vocazioni religiose. Lontana e dimenticata pure dalla provincia di Brescia alla quale la valle fu aggregata nell’anno XII dell’era fascista (1934). Basti dire che la prima visita in Val Vestino di un alto rappresentante della Repubblica Italiana si è avuta dopo 55 anni dal tramonto della monarchia. Anna Maria Cancellieri, prefetto di Brescia, arrivò nel 2001.
Un referendum popolare nei due comuni della valle, celebrato nel 2008, ha fornito indicazioni inequivocabili: favorevoli per un “ritorno al Trentino” 126 su 171 votanti di Valvestino (74,3%) e 119 su 174 votanti a Magasa (83,2%).
La regione Lombardia ha subito ratificato quella decisione, ma per il passaggio formale è necessaria una legge costituzionale (primo firmatario l’allora senatore del PATT, Franco Panizza) che il Parlamento di Roma, in tutt’altre e più gravi faccende affaccendato, ha rinviato alle calende greche.
In attesa di tornar Trentini (o tirolesi?), da qualche anno, il 18 agosto, si rievoca il genetliaco dell’imperatore Francesco Giuseppe d’Austria (1830-1916). Vi partecipano Schützen e autonomisti delle Giudicarie, di Piné e della Valsugana. Per la ottava edizione, nell’estate del 2017, oltre ai cappelli piumati e alla messa per i caduti austroungarici della Grande guerra (51, quasi tutti sul fronte della Galizia) il sindaco Federico Venturini levò il velo a una statua di bronzo che, all’ingresso di Magasa, celebra l’impegno delle donne nella prima guerra mondiale. Con gli uomini al fronte in Galizia, toccò a loro, alle donne, portare sassi e far trincee, sulla linea del Tombea e dei monti di Ledro.
Il sindaco Davide Pace: “La nostra cultura è trentina, anche se è evidente che dopo ottant’anni legati a Brescia c’è pure qualcosa della cultura lombarda”. Grazie alle sollecitazioni del decano dei giornalisti, Mario Antolini Muson (1920), da qualche anno la Val Vestino è stata “riaggregata” alla Judicaria dall’omonimo Centro Studi di Tione. “Qui viviamo l’isolamento più totale” spiega il sindaco di Magasa, Federico Venturini, 72 anni, passionale imprenditore turistico (due alberghi e un residence a Riva del Garda e Arco). Secondo i due sindaci, la soluzione di gran parte dei problemi della Valle è legata alla realizzazione di una galleria, della lunghezza complessiva di 5 chilometri e 400 metri, che dovrebbe collegare i due comuni della Val Vestino con Bondone-Baitoni e la valle del Chiese. Si era ipotizzata la fine dei lavori nel 2021. Non sono mai cominciati e, probabilmente, non prenderanno mai il via. Col passare del tempo le promesse si confondono con le nebbie che salgono dal lago. Il tunnel, del costo di almeno 34 milioni di euro (ma c’è chi ipotizza una spesa superiore ai 42 milioni di euro), fu deciso e finanziato a fine maggio 2017 dalla regione Lombardia e dalla Provincia autonoma di Trento nell’ambito della conferenza dei “Comuni confinanti”. Tutto è rimasto sospeso. Prima la pandemia, poi le urgenze della ripartenza, infine…
Il sindaco di Magasa, Federico Venturini: “Sono convinto che se facciamo il tunnel che va a Bondone riscopriamo la nostra identità. E torniamo a essere Trentini. Il mio sogno è che fra vent’anni, grazie a quel tunnel che qualcuno contesta, la curva demografica di queste comunità torni a crescere”.
Il giovane sindaco di Vestino, Davide Pace, anima autonomista e appassionato cacciatore di uccelletti (“vado a caccia di tordi e cesene nei boschi di Magasa sennò magari qualcuno mi accusa di interesse privato”), non vede l’ora di tornare a essere Trentino. Probabilmente, nessuno gli ha ancora detto che in provincia di Trento la caccia agli uccelli è proibita da anni. Ma come per Enrico di Navarra che, pur di conquistare la Francia, abiurò al Calvinismo (“Parigi val bene una messa”) per il sindaco Valvestino il ritorno al Trentino vale bene la rinuncia di una beccaccia.
Il sindaco Venturini, che non nasconde simpatie per la destra (“alla prima elezione c’erano sette liste: tre di estrema destra e quattro di destra”) manifesta un’ammirazione, che sconfina nell’affetto, per l’ex governatore del Trentino, il parlamentare Lorenzo Dellai: “Se abbiamo portato a casa il tunnel lo dobbiamo a lui”. Il fatto è che oggi al governo del Trentino ci sono altri inquilini di piazza Dante e se possono evitare di far applaudire l’ex presidente Dellai non si tirano certo indietro. Ma non è che quel collegamento rapido con la valle del Chiese potrebbe servire a far scappare più in fretta la popolazione rimasta?
“Potrebbe accadere, certo. Quando abbiamo costruito la strada che arriva a Cadria (1968), c’erano 54 abitanti. Finiti i lavori, sono riamasti in tre. Adesso però il paese si sta ripopolando con l’arrivo di alcune famiglie danesi benestanti. Il villaggio è fantastico. C’è una qualità di vita eccezionale, se si pensa che siamo ad appena quaranta chilometri dal caos del Garda. Insomma, c’è un ritorno, si è accesa una speranza”.
A suo tempo, su quel tunnel della sopravvivenza, “Legambiente” aveva pestato i piedi, scomodando fior di economisti per dire che quell’opera non era giustificabile dal punto di vista economico. “Neanche curare i malati è economico – aveva ribattuto il sindaco Venturini – e allora, che cosa facciamo, li lasciamo morire”?
Pure Filippo Degasperi, consigliere provinciale di Trento dei “Cinquestelle” aveva manifestato perplessità: “Venticinque milioni di euro del Trentino per un tunnel che serve trecento persone, una follia. Considerata la popolazione del comune di Valvestino (n.184 ab.) e di Magasa (n.142 ab.), il costo pro-capite corrisponderebbe all’incirca a 100mila euro per abitante”. La replica: “A parte che le persone singole quel denaro non lo vedrebbero mai, mentre per il tunnel siamo riusciti a ottenerlo, il collegamento rapido con la piana di Storo servirà a far vivere un territorio, sette comunità, una popolazione che fino a ottant’anni fa era Trentina e che solo una dittatura poteva strappare e vendere come i secolari boschi di faggio dell’alta valle”.
Già, pare proprio che Mussolini sia stato sollecitato a scorporare la Val Vestino dal Trentino per via delle faggete che, in tempi di autarchia, servivano a produrre carbonella per i motori delle auto a gasogeno. In questo territorio, come nella vicina valle del Chiese, il carbone di legna e il mestiere dei carbonai avevano assicurato per secoli il pane e il companatico.
Davide Pace, sindaco di Valvestino: “Se non li usiamo noi, quei soldi stanziati per i comuni di confine, andrebbero da un’altra parte. E non so se sarebbero utilizzati meglio o peggio. Qui abbiamo due comuni che stanno morendo. Se questo territorio non ha bisogno di essere tenuto in vita, veda lei”. Anche il parroco dell’intera valle, don Franco Bresciani, 70 anni, tornato da qualche mese dopo vent’anni di servizio pastorale altrove, non ha dubbi: “Il tunnel è necessario, benché costoso. Diversamente, se non è già tardi, in pochi anni la valle morirà”.
Se ne era reso conto a metà luglio 2017 durante la visita alle famiglie, per la “benedizione” delle case: “Armo, vent’anni fa faceva 110 abitanti, ieri ne ho contati 29, compresi due immigrati slavi; oggi [20 luglio] a Turano ho calcolato 35 persone, erano più del doppio vent’anni fa; a Bollone ne ho contati dieci. A Droane, frazione di Turano, vivono soltanto in tre. L’unico paese in controtendenza è Persone: vent’anni fa aveva 26 abitanti e l’altro giorno ne ho segnati 34”.
Il povero parroco di sei parrocchie che si assottigliavano di anno in anno (“da quando sono qui ho celebrato due funerali a Magasa”) rilevò che l’ultimo matrimonio (“Che cosa sono i matrimoni? Già si sposano poco e i giovani non ci sono più”) fu celebrato ad Armo il 3 ottobre 2015. Un avvenimento. Don Bresciani dice due messe il sabato e quattro la domenica. Durante la settimana visita a turno una parrocchia.
I comuni sono due ma le sagre restano sette, perché da queste parti la sagra è ancora considerata “sacra”. Sei le chiese contornate dal cimitero. Nella valle di Vestino, lontana dal mondo ma non dagli eserciti e dalla cartolina precetto della chiamata alle armi, i decreti di Napoleone (1804) sulle sepolture o non sono mai arrivati o non furono mai applicati. Il cimitero della chiesa di Turano, in alto sulla montagna, è chiuso da una cancellata di ferro così come l’entrata della parrocchiale. Per contrastare i ladri? Neanche per idea: per evitare che vi entrino le galline e pure qualche cinghiale.
Proprio a Turano, l’ultima domenica di agosto si celebra la “festa del perdono”. È tradizione che papa Alessandro III (1159-1181) in contrapposizione con Federico Barbarossa (1122-1190), avesse vagato in Italia, Francia e sull’arco delle Alpi fino a passare da Turano. Qui, per l’accoglienza ottenuta, avrebbe concesso l’indulgenza plenaria del “Perdono”. Una leggenda, alimentata nei secoli con la festa di fine estate. Ed è leggendario pure il passaggio di San Vigilio, terzo vescovo tridentino.
A Droane, villaggio in Val di Droanello il patrono di Trento si sarebbe fermato più che altrove tanto che nel medioevo gli era stata dedicata una cappella (citata nel 1186). Il 26 giugno, festa di San Vigilio, giusto un lascito testamentario era distribuito un pane a chi partecipava al rito religioso. Un antico legato parlava di cento chili di pane da spartire ai devoti “a ricordo della peste”. Contestualmente, si benediva il cimitero. È tradizione, infatti, che, al pari di altri villaggi delle vicine Giudicarie, Droane fosse stato spopolato da una delle ricorrenti pestilenze del basso Medioevo. “Sopravvissero solo due vecchiette le quali, rifugiatesi in una stalla, restarono immuni per l’odore del becco e, ben conoscendo la stagione degli amori caprini, si può dedurre che il terribile morbo si fosse diffuso verso l’autunno. Si racconta che la pestilenza ammorbò a tal punto l’aria, che collocando una pagnotta alla Croce di Camiolo, cioè fra Droane e la valle di Vestino, la parte della pagnotta rivolta verso l’infelice paese anneriva e marciva, mentre l’altra rimaneva bianca” (V. Zeni, Miti e leggende ed alcuni fatti storici di Magasa e Valle di Vestino, 1985, dattiloscritto).
Uno degli ultimi abitanti di Droane, Stefano Tedeschi (“Tiène”) di 79 anni, morì in un incidente d’auto nell’agosto del 2016. Qualche frammento di cronaca diventato storia. Nelle foreste fra il Garda e il Chiese trovavano scampo i fuorilegge che fuggivano dallo Stato Veneto. Tra i più noti, il brigante “Zanzanù” (Giovanni Beatrici) che fu ucciso il 17 agosto 1617 sui monti della Val Vestino dagli abitanti di Tignale, stanchi di soprusi e di angherie.
Un altro episodio scosse la comunità a fine settembre 1759. Di notte, un mugnaio di Magasa aveva tentato una rapina in canonica. Il curato, svegliato di soprassalto, si mise a urlare e chiedere aiuto. Finì che il mugnaio lo fece tacere per l’eternità. Tagliò, infatti, la testa a don Ascanio Glisenti da Vestone. Quel macabro trofeo lo portò diritto sulla forca. Qualche anno prima, in una nota alla visita pastorale del 24 luglio 1750, il principe vescovo Leopoldo Ernesto Firmian scriveva che gli adulti della valle erano “più amanti delle bettole che della loro eterna salute”.
Un secolo dopo (15 agosto 1854), mentre ad Armo era in corso la processione con la statua dell’Assunta, al Fornello fu aggredito e assassinato Pietro Bertola, 75 anni, contadino, detto “Daga”. L’assassino, un certo “Bega” da Gargnano, cercava i marenghi d’oro che il “Daga”, detto anche “Orso”, aveva risparmiato e nascosto dentro un muro. Non li trovò, ma il contadino aveva messo a parte dei suoi segreti il parroco di Turano, Giuseppe Degiampietro da Cavalese (1807-1879), il quale, con quei marenghi d’oro, provvide poi a far decorare la chiesa parrocchiale.
Più volte la valle fu teatro di scorribande e predazioni. Dimenticata da Dio, non lo fu mai dai soldati, fossero tedeschi, austriaci o francesi. Il 16 agosto 1797, mentre Napoleone era a Storo, un drappello dell’armata francese arrivò fino in Val Vestino dove requisì “decine di quintali di generi alimentari e una rilevante somma di denaro”. Furibondi, impotenti e spaventati, ai poveri abitanti non restò che votarsi per l’ennesima volta a Dio.
Il Consiglio generale di Valle deliberò una processione alla parrocchiale di tutte le “terre di essa” [valle]. Vi parteciparono dodici fra preti e chierici. Vent’anni dopo, durante quello che passò alla storia come “l’an dala fam” (1816-1817) un prete forestiero fu trovato morto di fame vicino a Magasa. Aveva in bocca due lumache ancora vive. Sul luogo fu piantata una croce, detta “del por mort”. In quella tragica estate, la popolazione della Val Vestino sopravvisse mangiando cicoria di campo e ortiche.
L’epidemia di colera del 1835-1836, che a Brescia fece 1.613 morti, non riuscì a superare le barriere naturali della Val Vestino. Pochi anni dopo, invece, si diffusero il vaiolo (1839-1841) e una “febbre maligna” che causò cinquanta vittime a Magasa e venti a Persone. Negli anni di nuove epidemie di colera (1855 e 1865) la popolazione si votò alla Madonna della Neve. Anche in quel caso il contagio non raggiunse i villaggi della valle. Più che la devozione poté l’isolamento: se non passavano gli uomini, neanche le epidemie… Proprio nell’estate del colera, “un terribile nubifragio caduto sulla valle il 18 agosto 1855, ne aveva quasi affatto distrutte le intere comunicazioni, non che il sentiero che comunica con Gargnano, per modo che i poverissimi paesi si trovano nell’impossibilità di riaprirsi le necessarie comunicazioni”. Poi venne la seconda guerra d’indipendenza italiana.
L’insegnante Vito Zeni scrisse che “la valle era brulicante di soldati austriaci occupanti specialmente il monte Tombea”. Uno di Magasa si arruolò nell’esercito sardo-piemontese, ma numerosi furono i “cacciatori tirolesi” di Magasa, Armo e Bollone che presero parte alla mattanza di Solferino e San Martino (24 giugno 1859). La guerra finì con la cessione della Lombardia al regno dei Savoia. In tal modo i passi della Valle finirono per diventare confine di Stato. E tali rimasero fino al 1915 quando, alla dichiarazione di guerra contro l’Austria, i soldati italiani occuparono l’intera Val Vestino dalla quale, strategicamente, si erano ritirati gli Austriaci. Il curato di Magasa e il parroco di Turano furono internati in Italia perché ritenuti “austriacanti”.
Cinquant’anni prima i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi erano dilagati anche qui. Il 15 luglio 1866, raggiunta Magasa, quattrocento volontari proseguirono in Lorina per scendere in Val di Ledro. Non prima di aver razziato e costretto le sei comunità della Val Vestino a “prestar” loro farina, carne, vino e tutto quanto poteva sfamare quella torma di scalmanati. Dopo il celebre “obbedisco” di Bezzecca e il ritiro dei Garibaldini dal Trentino (1866), la Val Vestino avrebbe potuto passare al regno d’Italia. Difatti, l’Austria lasciò a codesta popolazione il diritto di scelta.
Scrisse Cesare Battisti: “Sperando di aver presto delle comunicazioni stradali, che a tutt’oggi (1909), non furono ancora costruite, [essi] dichiararono fedeltà al governo austriaco”. In verità, un peso nella scelta della popolazione lo ebbe il clero, con i “reverendi parroci della valle che temevano di perdere nel nuovo Regno la congrua” e avanzarono una supplica all’Imperatore di Vienna “tendente a ottenere che la Valle rimanesse austriaca”.Poiché non vi fu alcuna opposizione, la Commissione italiana che doveva definire i nuovi confini lasciò correre “e si creò così la mostruosità di una valle separata da un massiccio quasi impervio e della vicina accessibilissima (?) terra bresciana dal confine politico”. Così si scriveva in una relazione “di parte”, il 16 settembre 1933, propedeutica al trasferimento della Val Vestino dalla provincia di Trento alla provincia di Brescia.
L’isolamento sarebbe rimasto. La fatica del vivere pure.