La notizia, vera, vera a metà, falsa?, (in inglese: fake news) che sia il patrono degli innamorati si ripropone da molti decenni a metà febbraio quando il calendario della Chiesa cattolica rammenta “S. Valentino”. Quale, dei molti santi e beati approdati alla gloria degli altari nel corso dei secoli, è difficile dire. O S. Valentino che fu vescovo di Terni (176-273), o un altro che fu vescovo delle Rezie, patrono di Passavia in Baviera e morto a Merano nel 485. Forse non è nemmeno importante saperlo in questi tempi che prendono spunto dal sacro solo per alimentare il mercato profano di fiori, cioccolatini, gioielli (per chi se li può permettere).
Secondo la tradizione la festa di S. Valentino sarebbe stata determinata dalla volontà dei cristiani dei primi secoli di sterilizzare una ricorrenza pagana ritenuta immorale. Ancora nel IV secolo i romani celebravano Lupercus, il dio della fertilità e dell’amore carnale, con la prolungata congiunzione di coppie casuali i cui nomi erano tolti da un’urna, come una lotteria. A questo rito la Chiesa cattolica sovrappose la festa dell’amore affidata a un patrono di nome Valentino. Un uomo probo che avesse sacrificato la propria vita per amore: di Cristo.
Papa Gelasio I (492-496), celebre per la sua lotta contro le eresie, nel 495 istituì la ricorrenza di S. Valentino il 14 febbraio “assunto come il protettore degli amori casti e verecondi, delle unioni legali e ufficiali” (Treccani)
Nel Novecento qualche buontempone indicò quale “santo” degli innamorati un divo italo-americano del cinema muto. Quel Rodolfo Alfonso Raffaello Pierre Filibert Guglielmi di Valentina d’Antonguolla, il quale emigrato negli Stati Uniti a 18 anni dalla natia Castellaneta (Taranto) e divenuto il primo divo maschile del cinema muto. Essendo il prototipo di un “extracomunitario” dei nostri tempi, per vivere fece il lavapiatti, il giardiniere, il guardaparco e pure il “gigolo”. La sua “straordinaria bellezza” lo portò a Hollywood dove cominciò a chiamarsi Rodolfo di Valentina fino a trasformarsi nel più semplice Rudolph Valentino. Nato nel 1895 morì di peritonite a 31 anni, nel 1926, dopo cinque anni intensi di celebrità.
In Trentino sono numerose le comunità che hanno affidato a S. Valentino la titolarità della loro chiesa o la devozione di un capitello. Tra i più noti figurano i santuari di S. Valentino ai Marani di Ala (1329), la cappella-santuario nella campagna di Vezzano (860), la cappella sul dosso di Brenta fra i laghi di Levico e Caldonazzo (1259); a Iavré (1405), all’imbocco della valle di S. Valentino sul monte Nizzone.
Parrocchie e curazie: Valsorda di Trento (1768); Panchià (1190); Vignole di Arco (1400 ca.); Bolentina (1474); Carpaneda di Folgaria (1490), Scurelle (1517); Sopramonte (1537 ca.); Gazzano di Civezzano (1537 ca.), Cagnò (1537), Vasio (1537), Piano di Banco (prima del 1537); Levico, ospedale (1545); Matassone (1631); Noarna (1636); Chienis (1700 ca.); Palù di Giovo (1630 ca.); Mama d’Avio (1750), Sorni di Lavis (1749); Vanza e Pozzacchio (1850).
A numerosi di questi luoghi di culto i contadini affidarono nei secoli il buon andamento della campagna, la protezione degli animali nella stalla (condivisa, peraltro con S. Antonio eremita, quello del porcellino) e magari pure i sogni di una vita migliore. Nella stalla si faceva il filò e, talora, sbocciavano gli amori. Come le prime timide viole, nei campi riparati dal vento, al tiepido sole di metà febbraio. E per chi in questi tormentati giorni di non finita pandemia ha “amori in corso” o intende gettare l’amo, è consigliata una cena a due. Rigorosamente a lume di candela, vista l’ultima bolletta della luce.