La “giornata della memoria”, il 27 gennaio, ha rievocato il principio della fine di un “regno” del terrore e della sopraffazione che tra il 1933 e il 1945 ha visto l’Europa strozzata dall’ideologia della supremazia della razza (ariana) e dalle ramificazioni dell’odio. Il Novecento fu il secolo dei genocidi e dello sterminio di masse anonime di uomini e donne. A cominciare dalla strage (1904) degli Herero e dei Nama (si stima fra 25 mila e 100 mila morti), nella colonia Tedesca della Namibia, nel Sud Africa. Nel 1915 in Turchia fu pianificato ed eseguito il genocidio degli Armeni (il massacro di 1 milione e 200 mila persone).
Il “Terrore rosso”, nei territori dell’Unione Sovietica di Lenin e Stalin, tra il 1920 e il 1950, vide la strage dei Kulàki con la decimazione dei contadini dell’Ucraina; la deportazione e la morte nei Gulag della Siberia di centinaia di migliaia di persone. Tra il 1943 e il 1945 sotto il III Reich vi fu lo sterminio di sei milioni di ebrei e di 170 mila uomini e donne dei popoli nomadi (Rom e Sinti). Nella Cambogia dei Khmèr rossi, tra il 1975 e il 1979 furono trucidati 2 milioni dei 7 milioni di persone che abitavano quella regione. In Africa, nel 1994, fu attuato il genocidio dei Tutsi, da parte degli estremisti Hutu. In cento giorni, fra il Burundi e il Ruanda, furono trucidati 800 mila esseri umani.
Nell’ultimo decennio del XX secolo, nei territori della ex Jugoslavia, dalla Bosnia al Kosovo, l’esplosione del nazionalismo anche religioso (musulmani, ortodossi) provocò massacri e stragi in una “pulizia etnica” che ancor oggi alimenta il fuoco dell’odio. E non è finita, tanto che oggi si parla del genocidio (2017) del popolo dei Rohingya, una minoranza etnica musulmana, in Birmania. In questi ultimi anni si parla poi del genocidio demografico e culturale degli Uiguri da parte della Cina, 12 milioni di persone, di religione islamico sunnita, che vivono nella regione nord-occidentale cinese dello Xinjiang.
Riannodiamo il filo della storia per affrontare oggi, con Renzo Fracalossi, una delle figure più devastanti del XX secolo.
16 – Il bambino di Braunau
A Braunau am Inn, in una sera d’aprile del 1889 e nella locanda “Gasthof zum Pommern” sulle rive del fiume Inn nell’ Alta Austria, il pianto di un neonato ne annuncia l’arrivo al mondo. La mamma, Klara nata Poelzl, culla quel bimbetto, mentre il padre Alois osserva il terzogenito che riempie la stanza con i suoi vagiti. È un quadretto familiare, così caro alla cultura Biedermeier del vecchio Kaiser Franz Josef e quella famiglia è una delle tante del vasto impero. Al bimbo viene imposto il nome di Adolf.
Adolf Hitler. Inquieto e ribelle, in costante conflitto con il padre – di possibili origini ebraiche – Adolf è svogliato, studia poco e ben presto rinuncia alla scuola per dedicarsi alla sua vera passione e cioè la pittura. A diciott’anni, con il sostegno della madre, va a Vienna pieno di speranze artistiche e di sogni di gloria. È un autodidatta, anche scadente e privo del tocco del genio e così viene respinto all’esame di ammissione all’Accademia di Belle Arti per “scarse attitudini”. È una sconfitta bruciante, ma l’anno dopo ci riprova, ottenendo un nuovo diniego, segnato dall’attributo di “mediocre”.
Nel dicembre del 1908 muore sua madre e con essa anche quella minima fonte di sostentamento che permette ad Adolf di rimanere a Vienna. Solo, senza un lavoro, trova impiego come manovale edile, ma rifiuta di iscriversi al sindacato e, in breve, è costretto al licenziamento. La sua è la vita di un disoccupato che, saltuariamente, spala neve, fa il facchino abusivo, il muratore, il cartellonista e l’imbianchino. Dorme nelle camerate pubbliche e mangia alla mensa dei “Fratelli della Carità”.
Mentre Vienna si crogiola nella spensieratezza più assoluta e nel turbinio dei valzer, Adolf fa la fame e spende le sue giornate spesso nel loggione della “Staatsoper”, ascoltando la cupa ed eroica musica di Wagner. Altro che Strauss. Maestoso, complesso, imponente, il compositore di Bayreuth costituisce una fonte di conoscenza per il giovane Hitler, soprattutto in relazione alla mitologia nordica, agli dèi come Odino, Wotan, Loki e Thor, alla battaglia come soluzione dei conflitti e al mito della purezza del sangue ariano, destinato a dominare il paradiso del Walhalla e, di conseguenza, il mondo materiale.
Fame, musica e libri. Hitler divora volumi di politica rivoluzionaria, anarchica, socialdemocratica. Non ha alcuna base culturale e tutto si compone in un enorme bagaglio di confusione, che alimenta odio, disprezzo e rancore: i tipici ingredienti dell’emarginazione. Nel 1913 si trasferisce a Monaco di Baviera, anche per sfuggire ai troppi debiti contratti e all’obbligo militare. Ma nelle terre dei Wittelsbach, per il giovane Hitler cambia poco. Nel gennaio del 1914 viene arrestato e rispedito in Austria, dove lo sottopongono alla visita militare e lo “riformano”, perché troppo magro e denutrito. Per l’orgoglio del giovanotto è un altro colpo durissimo, che nutre ancor più l’odio verso i borghesi e le classi dominanti.
Con lo scoppio della guerra, Hitler chiede di essere arruolato in un reggimento bavarese, visto che in Austria non lo vogliono. Richiesta accolta e destinazione al 16.mo Reggimento di Fanteria bavarese. La guerra è la vera svolta della sua vita. Lo entusiasma, lo eccita, lo esalta. La trincea lo affascina: lì può combattere e parlare di politica, in un coacervo di confusioni e di idee raffazzonate qua e là. Conosce in quei frangenti un giovane ufficiale che si chiama Rudolf Hess e che è esperto in una nuova scienza: la geopolitica. È il momento di svolta. Hitler apprende avidamente e supera poi il maestro: parla ai soldati, lancia anatemi carichi di odio soprattutto contro gli ebrei, nei quali identifica la grassa borghesia viennese che lo ha sempre respinto ovunque. Ma non basta. Hitler dimostra un coraggio che rasenta l’incoscienza. Va all’assalto per primo e costruisce di sé il “mito dell’incolumità”. Ma una pallottola gli attraversa una gamba e gli fa ottenere la promozione a caporale e l’ambita decorazione della Croce di Ferro di 1.a classe. Non lo promuovono sergente perché, colmo dell’ironia, non gli riconoscono doti di leadership e di comando. Un attacco con il gas asfissiante lo ferisce di nuovo e lo spedisce in ospedale dove accoglie la notizia della disfatta tedesca. È quell’evento che lo spinge a dedicarsi alla vita politica, strumento ideale per combattere i marxisti traditori e gli ebrei infidi. L’impero del kaiser Guglielmo crolla e gli subentra una fragile repubblica democratica che ha per capitale Weimar. Nel 1919 Hitler si iscrive al Partito dei Lavoratori Tedeschi, fondato da Anton Drexler e da Karl Harrer. Hitler è il quinto iscritto. Grazie al suo lavoro però, nell’arco di poco tempo, al suo nome si aggiungono quelli di Hermann Göring, dei fratelli Otto e Gregor Strasser, di Rudolf Hess, Alfred Rosenberg, Julius Streicher e del generale Erich Luddendorf. Nel 1920, Hitler domina già questa piccola forza politica, sfoderando un demagogico e populista decalogo di indignazione ed ira per le umiliazioni subite dalla Germania. I suoi nemici sono quelli di sempre: gli ebrei, i comunisti e il Trattato di Versailles del 1919 [che aveva “spogliato” la Germania di tutti i possedimenti coloniali, dei territori dell’Alsazia-Lorena incamerati dalla Francia. Inoltre, alla Germania erano state addossate tutte le spese per le riparazioni di guerra e fu costretta a ridurre il proprio esercito a centomila uomini].
Il linguaggio di Hitler è semplice e comprensibile. Dice ai tedeschi ciò che vogliono sentirsi dire ed usa la violenza come strumento di lotta politica, sia all’interno del partito, sia all’esterno. Tre anni dopo (8 novembre 1923), in una birreria di Monaco, partecipa a un tentativo, fallito, di colpo di Stato. Arrestato e processato viene condannato a sei mesi di carcere, insieme al fidato Rudolf Hess al quale detta, in cella, un volume di teorie politiche piuttosto strampalate e retoriche, il “Mein Kampf”. Uscito di prigione, diventa quasi subito il capo indiscusso del partito. Elimina gli oppositori interni; si circonda di una corte di fedelissimi; cerca fondi e promuove comizi a pagamento. È un successo. Hitler è un oratore magnetico che focalizza il suo ragionamento sullo “spazio vitale” e sulla “pura razza germanica, destinata a dominare il mondo”. Con alterni esiti elettorali il Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi con le S.A. e le S.S., le sue squadracce di picchiatori, cresce nei consensi fino alla vittoria elettorale e alla nomina a Cancelliere. È il 30 gennaio 1933.
L’esito rafforza il partito a dismisura e conquista i grandi gruppi economici, al pari delle semplici famiglie proletarie e piccolo-borghesi: iniziano dodici anni che cambieranno il mondo.
Con la presa del potere cresce anche la pulsione razziale, una delle principali caratteristiche del nazismo. Vengono emanate alcune norme che postulano la “superiorità della razza ariana” e discriminano la popolazione ebraica – composta da circa mezzo milione di persone – che vive in Germania. Da un lato quindi la “Volksgemeinshaft”, cioè la “comunità popolare” che costituisce l’ossatura razziale del III Reich e dall’altro i “Gemeinsshaftsfremde”, ovvero gli “estranei alla comunità popolare” che costituiscono una categoria spregevole, composta ovviamente da ebrei, ma anche da zingari, “lavativi”, “asociali ereditari”, omosessuali e tutti i portatori di handicap fisico o mentale. Povertà, disoccupazione, disagio sociale, emarginazione e responsabilità nella sconfitta bellica sono, secondo Hitler, le responsabilità principale dei giudei, dei comunisti e dei massoni ed è pertanto verso costoro che si indirizza la furia nazista che prende avvio con le leggi discriminatorie di Norimberga e culmina nei campi di concentramento e di sterminio.
(16 – continua – Le precedenti puntate sono state pubblicate in rete il 22, 27 settembre; 5, 11, 21, 27 ottobre; 6, 12, 21 novembre, 9, 19, 26 dicembre 2021, 1, 14 gennaio, 1 febbraio 2022)