Per due anni, una signora trentina è rimasta “prigioniera” di un “torturatore giapponese”, di un veleno che l’ha portata a un passo dalla fine. Tutto a causa di una crêpe agli champignon, una frittata ai funghi, mangiata in una brasserie ad Avignone, in Francia. Non ne riveliamo l’identità, ma avendo seguito da vicino l’intera vicenda, siamo in grado di documentare questa singolare disavventura.
La comitiva di turisti trentini si recò nel sud della Francia sulle “tracce dei Catari”. In visita alle città che videro lo sviluppo e l’annientamento dell’eresia diffusa dal nord Italia alla Germania occidentale e alla Francia meridionale tra il XII e XIII secolo. I Catari (dal greco katharòs: “puro”) che si autodefinivano “uomini buoni”, contestavano l’accumulo dei beni materiali da parte degli uomini della Chiesa romana. Nella Francia meridionale “l’eresia” mise radici ad Albi (per tale ragione furono chiamati anche “Albigesi”), Carcassonne, Béziers, Limoux e Agde. Gli Albigesi avevano formato una “Chiesa alternativa”, con una propria gerarchia e una dottrina che, ispirandosi al Nuovo Testamento, sosteneva la povertà evangelica e rifiutava tutto quanto era carnale e materiale.
Minando le basi della società medievale, i Catari propugnavano l’uguaglianza sociale. Per ottenerla assalivano monasteri, trucidavano i religiosi, bruciavano le chiese. Finì ucciso anche l’inviato del papa Innocenzo III (1198-1216), Pietro de Castelnau (1170-1208), che faceva parte di una delegazione di monaci cistercensi. Questo episodio spinse il pontefice latino a bandire una crociata per sradicare l’eresia dalla Linguadoca. Per porre fine ai disordini e alle predicazioni che minavano le basi stesse del potere papale e della sua curia fu inviato in Francia pure lo spagnolo Domenico de Guzman (1170-1221), il fondatore dell’ordine monastico dei Domenicani il quale, nel 1231, avviò un secolo di repressione con i tribunali dell’Inquisizione.
Sulle tracce dei Catari, quindi. Dopo aver visitato le “città dell’eresia” nella Francia meridionale, alla fine di agosto del 2018 la comitiva di turisti trentini arrivò ad Avignone. Dal 1309 al 1377 fu la sede dei Papi cattolici che avevano trasferito la sede da Roma alla Provenza, nella città sul Rodano. Visitato il palazzo dei Papi della “cattività avignonese”, i turisti si dispersero a piccoli gruppi per consumare il pranzo. Cinque di costoro si sedettero al tavolo di una brasserie, una trattoria, dove ordinarono varie pietanze. Una signora sulla settantina si lasciò ammaliare da una omelette ai funghi. Che la sventurata mangiò.
Due giorni dopo il ritorno a casa, la signora si svegliò con un dolore lancinante alle mani. Erano arrossate come se vi fosse passato sopra un ferro da stiro bollente. Cominciò in quei giorni un lungo pellegrinaggio durato due anni, fra medici e ospedali, alla ricerca di un analgesico. Furono interpellati neurologi, luminari in varie discipline. Nessuno sapeva dare una risposta convincente, nessuno era in grado di proporre un lenitivo efficace. Passavano le settimane, la signora deperiva. Da settanta chili che era, in pochi mesi era dimagrita a meno di cinquanta. Anche la morfina che dopo un anno di dolori le fu somministrata in via permanente pareva avere risultati modesti. La povera donna se ne stava a letto giorno e notte, in un dolorante dormiveglia, accudita come fosse prossima alla fine.
Finché un giorno, molti mesi dopo l’insorgenza dei sintomi di quella inspiegabile malattia, un cugino dell’inferma, socio del gruppo micologico “Bresadola” di Trento, chiese lumi ai partecipanti alla gita in terra di Francia. Risultava a qualcuno che la sua congiunta avesse mangiato funghi? E se sì, dove e quando?
A qualcuno sovvenne che sì, c’era stato quel pranzo nella brasserie di Avignone. Ma che cosa c’entravano i funghi? Il presidente del gruppo micologico “Bresadola” di Trento, con il quale era stata condivisa la preoccupazione per la sorte della donna, aveva rammentato che i sintomi descritti si erano manifestati proprio nel sud della Francia, vent’anni prima, dove erano rimaste intossicate alcune persone. L’avvelenamento era stato attribuito ad un fungo: il Clitocybe acromelalga.
Una ricerca in internet ha consentito di ricostruire la catena degli eventi e di attribuire, con ragionevole certezza, a quel fungo, i sintomi della “eritromelalgia delle estremità” accusati dalla signora trentina. E che fossero dolori lancinanti lo diceva l’attribuzione di “torturatore giapponese” o “Yakèdo-kin” (fungo con ustioni) dato a quella specie che nel sud est asiatico aveva causato avvelenamenti a catena.
Dal web si è saputo che tale avvelenamento da funghi era noto solo in Giappone dalla fine del XIX secolo fino a un’intossicazione di cinque persone in Savoia (Francia) nel 1996. “Il fungo responsabile è stato identificato nel 1918 dal micologo medico giapponese Ichimura e prende il nome dai sintomi Clitocybe acromelalga , [dal greco “acro” = estremità, “mel” =, arto o articolazione e “alga” = dolore]”.
Altri avvelenamenti si sono verificati negli ultimi anni in Italia (Abruzzo) e in Turchia.
La letteratura medica disponibile dice che dopo tre giorni dall’ingestione, il fungo provoca “eritermalgia” (rara forma di neuropatia con arrossamento e aumento della temperatura) delle estremità (dita delle mani, dei piedi, del pene) con parestesia (sensazione di formicolio) ed edema, quindi dolore acuto sotto forma di intollerabili sensazioni di vera tortura con un ferro caldo, resistente agli antidolorifici, ma alleviata temporaneamente dall’acqua ghiacciata”.
La letteratura medica diceva anche che tali disturbi sarebbero regrediti lentamente dopo circa un anno e risolti nel giro di un paio di anni. E così è stato per la protagonista di questa dolorosa trasferta in terra francese. Inutile dire che, sconfitto il “torturatore giapponese”, la signora non ha più mangiato funghi. Nemmeno i porcini. Come si dice: scottati dall’acqua calda… con quel che segue.
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1 commento
Bravo Alberto, non ho potuto non arrivare fino in fondo. Interessante il tema e vivace il racconto. Complimenti
Giacomo Santini