Una storia familiare rievocata dal figlio di un carabiniere del Bleggio che fu internato in un lager in Germania, dopo l’8 settembre 1943. Claudio Riccadonna scrive al trentinonuovo.it per condividere l’emozione e la commozione dopo la consultazione di documenti recuperati nell’archivio di Stato.
Attraverso la consultazione, qualche giorno fa, di un fascicolo militare conservato presso l’archivio di Stato di Trento, (peraltro compilato con dovizia di particolari, con certosina accuratezza da parte dell’encomiabile Arma dei carabinieri) entro in contatto con le mie origini, con una parte della “storia” della mia famiglia. Davvero un’emozione intensa, fonte di non poca commozione.
Angelo, mio padre è stato un militare di carriera (carabiniere) in servizio tra il 1938 e il 1976, anno in cui andò in quiescenza per gravi motivi di salute; era nato nel dicembre 1919 a Bleggio superiore, primo di 5 figli e rimasto orfano di padre poco più che diciottenne. Una volta arruolato, fu impegnato su diversi fronti di guerra, tra il 1940 e il 1943, sul fronte occidentale, su quello greco albanese, nei Balcani. L’11 settembre 1943, dopo la firma dell’armistizio, venne catturato dai tedeschi a Ragusa in Croazia e internato in Germania fino all’8 maggio del 1945 (peraltro, in quei due anni, raggiunse un’ottima conoscenza della lingua tedesca), giorno in cui venne liberato e trattenuto dagli Alleati fino al 18 giugno per poi ripresentarsi, appena tornato in Italia, presso il comando della legione militare di Verona a cui apparteneva. Successivamente gli verranno riconosciute le croci al merito di guerra e per internamento.
Aldilà di questa breve cronistoria, penso spesso al dolore e alla sofferenza patite di persona che riusciva a contenere e a celare. Raramente parlava di quanto gli era accaduto, quasi a volere proteggere il suo “nido” dai ricordi minacciosi di un “passato” ancora vicino, che aveva visto l’esaltazione degli aspetti più bestiali e oscuri della non umanità. Probabilmente una volontà di rimozione, come per tanti di quella generazione, che immobilizzava e ammutoliva anche i più loquaci. D’altra parte provo solo parzialmente ad immedesimarmi in quegli “spettri”, ad imbattermi, con la sola forza dell’immaginazione, in quelle scene raccapriccianti, probabilmente, vissute in prima persona, che avranno continuato a popolare la sua memoria.
Raramente, di tanto in tanto, di fronte a qualche domanda di un bambino “curioso”, o di fronte a qualche “capriccio alimentare”, si attivava quella sorta di memoria involontaria che riportava alla luce il ricordo delle bucce di patate di cui si era nutrito per riuscire a sopravvivere nell’inferno di Buchenwald. Oppure, tra le sue rimembranze, l’immagine eloquente di un giovane ventenne di sana e ottima costituzione fisica, disfatta e ridotta, nell’arco della prigionia, a quella di uno scheletro, pelle ed ossa. Mio padre pesava all’ingresso del campo più di 80 chili, due anni dopo ridimensionato a una larva umana di 38 chili. Tutti sappiamo come sia stato un destino comune a tanti altri internati.Chissà quali angosce e patimenti si nascondevano in quel racconto sempre dignitosamente misurato e composto. A distanza di trent’anni dalla sua morte, volevo ringraziarlo, non avendolo fatto in gioventù e quando era in vita, per l’esempio di onestà e di integrità che mi ha lasciato.
Claudio Riccadonna – Ala