Poi arrivava Natale. Che non era come quello di oggi, con la pandemia che imperversa nelle corsie degli ospedali e nei titoli di prima pagina. Prima che il Trentino naufragasse nel post moderno, in quella marmellata della globalizzazione (dei gusti e dei costumi) il Natale si declinava sul pentagramma della religiosità popolare. Legata al campanile, certo, ma pure ai ritmi lenti e accidentati dell’annata agricola. A cavallo, per capirci, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Al tempo in cui chi scrive andava alle elementari. Di un paese, Segonzano; di una valle, quella di Cembra, che restano l’ombelico di quel piccolo mondo personale fatto di affetti, di ricordi, di tenerezza. La periferia dell’anima è un condensato di vita vissuta, di incontri, di viaggi in altri continenti, ma quando gli anni rotolano verso il fondovalle, si torna alle radici. Le quali si fanno collettive, con la cronaca che diventa storia lungo le nervature dell’albero degli antenati.
Nel Trentino contadino, durante le quattro settimane dell’Avvento, prima dell’alba, tutti, scolari compresi, dovevano partecipare alla messa. A metà dicembre, in ordine sparso, i ragazzini andavano nel bosco a cercare e raccogliere il muschio per preparare il presepe. C’era una gara tra famiglie nel predisporre le statuine. La capanna era rinnovata ogni anno con cortecce di larice. Il presepe restava fino all’Epifania quando ai pastori e alle pecore si aggiungevano i tre Re Magi e le loro cavalcature: un cammello, un dromedario e un elefante. Gli zampognari arrivarono “dall’Italia” negli anni Trenta.
Almeno sino agli anni Sessanta, la vigilia di Natale non si usava consumare il “cenone”. Anche perché, prima del Vaticano II (1962-1965), il 24 dicembre erano obbligatori il digiuno e l’astinenza. Verso la fine del XX secolo si abbandonarono i digiuni e le astinenze furono prerogativa quotidiana dei miserabili. In quegli anni del primo dopoguerra, i bambini erano impegnati “a far fioretti”, ovvero a rinunce e piccoli sacrifici “per far piacere a Gesù bambino”. Le donne provvedevano alle pulizie di casa. Lucidavano gli oggetti di rame e di ottone con un composto di farina gialla, sale e aceto, detto “el belét”. Gli uomini erano impegnati a distillare grappa (di contrabbando) e, se c’era, a macellare il maiale che andava “conciato per le feste”.
Finita la cena della vigilia, la popolazione del villaggio partecipava alla funzione serale. Il prete distribuiva grani di incenso che sarebbero serviti ancora quella notte poichè, tornati a casa, si faceva il giro dell’abitazione a “fumentàr” le stanze. Mentre si passava da un locale all’altro erano recitate orazioni. Se non c’era l’incenso si bruciavano i rami d’olivo, quelli della domenica delle Palme, dentro il ferro da stiro o in un braciere. In mancanza dell’uno o degli altri si usavano “balòte de rasa”, palline di resina di pino o “bàgole de ginéoro”, bacche di ginepro, che emanavano un odore intenso e profumato.
L’incensazione dell’abitazione è ancora in uso in Alto Adige. A Merano, nel XVI secolo, toccava al sagrestano fumigare gli ingressi negli androni dei Portici dove poi si spruzzava l’acqua benedetta. In cambio riceveva tre quarti di vino e tre fiorini. In alta Val di Fassa, tale operazione era compiuta la vigilia dell’Epifania. Tutta la famiglia visitava la casa, la stalla e il fienile; il capofamiglia spruzzava acqua benedetta e “fumentava” con l’incenso i locali. Un rito propiziatorio che, almeno nelle intenzioni, serviva a tenere lontani gli spiriti del male, a proteggere le abitazioni e i fienili dalla folgore, dalla tempesta e dagli incendi. Era detta Pésca Tofègna (Pasqua Epifania).
L’usanza era in voga anche a Palù dei Mocheni dov’era indicata come Rachmahlder. Sugli stipiti delle porte, con un gessetto bianco si segnavano le lettere K+M+B, le iniziali dei nomi dei tre Re Magi (Kaspar, Melchior e Balthasar). Quel monogramma, in verità, conteneva pure la sintesi latina del “Christus benedicat mansionem”, Cristo benedica questa casa.
A Borgo Valsugana la sera della vigilia era celebrata “la messa del privilegio”. Concesso il 24 novembre 1751 da Benedetto XIV (1740-1758) “per le umilissime preghiere dell’illustrissimo e reverendissimo signore, signor Giovanni Battista Bortoli, vescovo di Feltre e conte”. Questi aveva chiesto al Papa che la comunità di Borgo, dopo l’Angelus della sera, potesse “cantar anche la prima messa di Natale”.
Analoga facoltà, fu concessa alla chiesa di S. Marco a Rovereto da Pio VI (1775-1799) in occasione del suo passaggio di ritorno da Vienna dove si era recato nell’inutile tentativo di far desistere “il re sagrestano”, l’imperatore Giuseppe II (1741-1790) dalla sua politica di secolarizzazione di chiese e conventi.
La notte di Natale, nella stufa era acceso un ceppo che avrebbe dovuto bruciare lentamente, per tutta la notte. La “zoca” doveva riscaldare la cucina ma anche, si credeva, Gesù bambino che, si raccontava, era “nato in una mangiatoia al freddo e al gelo”. Era pure credenza radicata che agli animali della stalla, la notte di Natale, fosse concessa la parola. In quella notte speciale, “le vacche e i bovi fanno conversazione, ma guai ad ascoltare i loro discorsi. Un uomo s’era sdraiato nella mangiatoia per ascoltare ciò che dicevano i suoi bovi. A mezzanotte uno si alza e dice all’altro: Su, su, poltrone, andiamo a tirar le assi per far la cassa al padrone. E tutti e due si misero a cozzare il malcapitato, finché a cornate lo uccisero. La notte dell’Epifania si possono anche veder le streghe: basta portarsi con una forca nuova, una corda nuova e un gatto nero ad un crocicchio di via; di lì passano certo” (Archivio folcloristico, “Pro Cultura”, II (1911), pp. 265-266).
All’alba del giorno di Natale molti si recavano a messa. Anzi, quel giorno c’erano addirittura tre messe per cui si diceva: “tre messe, tre panéti”, a significare che quel giorno si faceva festa anche a colazione. Perché al termine del rito religioso il prete faceva distribuire ai partecipanti una pagnotta. Natale era l’occasione per togliere dal “cassabanch” (cassettone a tre o quattro ripiani) il “vestì dala festa”, una rara alternativa all’abito “da dì d’opra”. Si indossava infatti soltanto in poche circostanze: “a Pasqua, da Nadàl e al funeràl del prinzipàl”.
I bambini non trovavano doni sotto l’albero. Li avevano già ricevuti da S. Lucia. L’albero con gli addobbi fu adottato nella seconda metà del XX secolo. Invece, i bambini scrivevano a genitori e padrini (tenuti in grande considerazione) biglietti e lettere augurali piene di buoni propositi. Davanti al presepe, i piccoli recitavano orazioni e filastrocche:
Oggi è nato en bel Bambin/ bianc e ross e rizzolin/ la so mama la lo ciàpa/ e ninando la lo ‘nfassa. /Po’ la ‘l mete ‘n den zestèl/ arènt al bò e a l’asenèl/che i lo scalda col so fià/ fin che ‘l se ‘ndormenzerà”.
Non si addobbava l’abete ma con la raccolta del muschio per il presepe si portavano a casa anche rami di vischio. Benché fosse un semiparassita del pino silvestre (e di altre essenze) era considerato di buon auspicio. Tant’è che presso i Celti il vischio aveva un valore sacro. I Druidi lo raccoglievano con un falcetto d’oro il sesto giorno di ogni mese lunare. Seguivano un rito e un banchetto.
Il pranzo di Natale era più vario e abbondante del consueto. Sulla tavola compariva la carne (di coniglio o di gallina) accompagnata dall’immancabile polenta che per l’occasione era “mora”, di grano saraceno.
Le nonne (che allora parevano vecchie anche se avevano magari solo cinquant’anni) preparavano “la torta de fregoloti” o lo “zèlten”, corruzione dal tedesco “selten” che significa: raramente, di rado. Nel pomeriggio del 25 dicembre ci si riuniva in casa, gli adulti bevevano “vin cot”, i piccoli giocavano a tombola o uscivano a slittare sulla neve. Allora, l’inverno era fatto di nevicate abbondanti e non servivano i “cannoni” per innevare le piste che erano ricavate sulle pubbliche strade. Quando passava “el slitón a far la rota”, lo spazzaneve, apriva un varco ma lasciava uno strato ben battuto, l’ideale per le slitte (“el slitòt”) e per i ruzzoloni. Benché fosse proibito anche allora, i ragazzini più vivaci rovesciavano sulla strada secchi d’acqua in modo da ottenere una lastra di ghiaccio sulla quale si scivolava a piacere. Questo era Natale. Poi arrivava S. Stefano, ma era una festa minore.
Le vacanze da scuola correvano veloci come le slitte su quelle piste ghiacciate. Il 31 dicembre, S. Silvestro, era consuetudine partecipare a un Te Deum di ringraziamento per l’anno che finiva. Non si sapeva, allora, che cosa fosse il cenone. Dopo le devozioni si tornava a casa e si andava a letto. Non c’erano i botti e non c’erano brindisi di mezzanotte. L’indomani invece si faceva a gara per essere primi ad augurare il “bon an, bon dì, la vossa bona man a mi”, o “le vosse beghenàte a mi”. La risposta era: “L’ho dit ‘nanzi levàr che chi che me le vénze me le cògn ridàr” (L’ho detto prima di alzarmi che chi le vince a me, me le deve ritornare).
L’augurio, rivolto a genitori e padrini, serviva per raggranellare qualche soldo e qualche dolce. A Capodanno, la prima persona che s’incontrava, uscendo da casa, avrebbe dato – così si credeva – l’impronta ai mesi seguenti. Se era una femmina sarebbe stato un anno poco fortunato; se era un maschio avrebbe portato abbondanza. Il massimo era l’incontro mattutino con un frate o con un gobbo.
“Se te ‘ncrosi ‘n gobét/ l’è ‘n an benedét,/ se te ‘ncrosi en fratón/ l’è ‘n an propri bon”.
A Capodanno, finito il desinare, la nonna tirava fuori da un armadio gli ultimi grappoli d’uva fraga, rinsecchita ma gustosa. Non era solo per far festa. Consentiva in tal modo di adempiere a un gesto propiziatorio poiché si credeva che quei chicchi avrebbero portato del denaro. Le feste natalizie coincidevano con un timido prolungamento del giorno. Pochi minuti di luce in più.
Si diceva: “Da Nadàl el pass d’en gal,/da l’Epifania el pass de ‘na strìa (strega), da Pasquetta el pass de ‘na vachèta”.
(3. – continua)
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