Esistono in Europa, alcuni luoghi che, per essere compresi, vanno visti. Le foreste delle Ardenne – l’antica “Silva Arduina” – sono uno di questi luoghi. Distesa fra colline e vallate scavate da fiumi come la Mosa, la regione delle Ardenne si colloca fra il Belgio meridionale e il Lussemburgo, per allungarsi anche dentro il territorio francese. Al di là delle sue principali città – Liegi e Namur – e di sparsi villaggi, l’intera area è scarsamente popolata ed il viaggiatore che percorre l’autostrada belga, che taglia longitudinalmente le foreste, avverte un senso di smarrimento, di vuoto e, quasi, di disagio che, come la bruma, sale dal fogliame senza fine di questi boschi. Ciò nonostante, questo territorio ha sempre rivestito un ruolo strategico nella vicenda europea, perché qui si sono svolte alcune battaglie epocali, sia nella prima come nella seconda guerra mondiale. Proprio verso la fine di quest’ultima, le foreste delle Ardenne diventano teatro dell’ultima offensiva tedesca di qualche peso sul fronte occidentale, voluta da Hitler, con lo scopo, peraltro fallito, di frantumare il fronte angloamericano e di arrivare al porto di Anversa, nodo logistico fondamentale per gli Alleati, ripetendo così la manovra già riuscita nel 1940.
“Nella storia mondiale non ci sono mai state coalizioni così eterogenee e con obiettivi così divergenti, come quella dei nostri avversari (…) può quindi accadere in qualsiasi momento che questo fronte, tenuto insieme artificiosamente, crolli all’improvviso con un enorme frastuono.” Così Hitler spiega ai suoi generali, riuniti nel “Nido dell’Aquila” a Ziegenberg il 12 dicembre 1944, il senso delle sue decisioni offensive.
In codice, l’operazione della Wehrmacht, passata poi alla storia come “Offensiva delle Ardenne”, assume due indicazioni distinte: dapprima “Wacht am Rhein” (“Guardia al Reno” n.d.r.) e poi “Herbstnebel” (“Nebbia autunnale” n.d.r.) e si avvale di alcune fra le più agguerrite grandi unità tedesche: la 6.a SS-Panzer Armee del gen. Josef “Sepp” Dietrich; la 5.a Panzer Armee del gen. von Manteuffel e la 7.a Armata del gen. Brandenberger, per un totale di 350.000 uomini e 1.500 carri armati.
Fra i reparti che sfondano d’impeto le linee americane, agisce con sorprendente efficacia e rapidità l’“SS-Kampfgruppe Peiper” (“Gruppo di combattimento delle SS” n.d.r.), formazione tipica delle Waffen SS (“SS combattenti” n.d.r.) collocabile fra il reggimento e la divisione, agli ordini del ten. col. Joachim Peiper, uno dei più giovani e brilllanti comandanti di truppe corazzate.
Peiper è un esempio chiaro di quel “soldato politico” che Himmler ha sempre vagheggiato. Nato a Berlino il 30 gennaio 1915, nel ‘33 quando Hitler viene eletto cancelliere, Joachim si arruola nelle SS, per poi entrare nelle unità combattenti delle Waffen SS. È un giovane promettente ed un nazista convinto. Percorre così una rapida carriera, iniziando dallo stato maggiore di Himmler e proseguendo poi sui Panzer, che sono la punta di diamante delle truppe tedesche, nelle vittoriose campagne di Polonia e Francia e nell’occupazione dell’Unione Sovietica, fino ad ottenere promozioni e riconoscimenti, come la Croce di Ferro di 1.a e 2.a classe.
Nel settembre del 1943, Peiper è al comando del 2.o Reggimento Granatieri, inquadrato nella 1.a SS-Panzer Division “Leibstandarte SS Adolf Hitler”, con il quale occupa tutto il territorio del Cuneese, in Piemonte, macchiandosi anche della strage di Boves e Castellar, durante azioni di rappresaglia antipartigiana. È dopo quel massacro di civili inermi che il suo reparto viene assegnato al fronte occidentale ed entra così nel novero delle truppe chiamate a sfondare la linea delle Ardenne.
La mattina del 17 dicembre, nella località di Malmedy, la Batteria B del 28.mo Battaglione d’Artiglieria da campo americano è in pieno trasferimento lungo il fronte. Un giorno freddo, umido e livido. L’autocolonna composta da circa trenta jeep, due camionette e due autocarri si snoda lungo le strade innevate della foresta. Improvvisamente, sbucando dal biancore accecante della neve, alcuni Panzer Panther IV del “Gruppo di combattimento Peiper” squarciano l’aria gelida ed i loro proiettili micidiali distruggono la parte centrale dell’autocolonna. Fiamme, esplosioni, urla dei feriti, spari, in una confusione indescrivibile. Gli americani sono bloccati e chi non muore si arrende; alza le mani e si affida ai valori ed agli impegni umanitari, condivisi da tutte le nazioni belligeranti con la sottoscrizione della “Convenzione di Ginevra” sui prigionieri di guerra.
Poco dopo, sopraggiungono altri autocarri con la stella bianca sulle portiere. Sono i genieri dell’86.mo Battaglione. La trappola scatta anche per loro e la neve si inzuppa di altro sangue, mentre molte mani si alzano in segno di resa. Alle ore 14.00, tutti i prigionieri americani vengono raccolti in una radura fra gli alberi, dove sorgeva un tempo il “Cafè Bodarwè”: 113 uomini disarmati, infreddoliti, disorientati e decisamente spaventati. Sono ragazzi poco più che ventenni del Midwest, della East Coast e della West Coast che già immaginano il destino di prigionia che pare attenderli.
Due colpi di pistola all’improvviso e due “G-Man”, che stanno provando a fuggire, cadono imbrattando il candore delle Ardenne. È un segnale. D’un tratto, tutte le armi dei tedeschi crepitano all’unisono e quasi tutti i prigionieri, inermi ed indifesi, cadono colpiti a morte. È un inferno che dura circa venti minuti. Sul terreno, alla fine della mattanza, rimangono settantuno morti e circa sessanta feriti. Alcuni hanno provato a fuggire, ma gli hanno sparato alle spalle e anch’essi sono diventati parte della terra di Malmedy.
Si tratta di un’azione che non ha nulla di militare, ma è solo la rappresentazione concreta e criminale della “guerra ideologica totale” voluta da Hitler e raccontata dalla propaganda di Goebbels. Un atto vile, gratuito e del tutto inutile, che passa alla storia come “il massacro di Malmedy” e che costa, a conflitto concluso, un processo per crimini di guerra al comandante di quell’unità, il ten. col. Joachim Peiper che viene condannato a morte, con pena poi commutata in ergastolo. Nel 1956 Peiper, che non si è mai pentito di quell’ azione, viene rilasciato e si trasferisce a Traves, in Francia, dove lavora come traduttore, sotto la falsa identità di Rainer Buschmann. Però alcuni ex partigiani francesi lo riconoscono e Peiper, alias Buschmann, viene denunciato. Mentre un nuovo procedimento viene istruito a suo carico dalla magistratura francese, la sua abitazione viene incendiata, il 13 luglio 1976, con alcune “bottiglie Molotv”: quasi una firma. Joachim Peiper, il boia di Malmedy, muore fra le fiamme.L’episodio di quell’inutile massacro, del quale in questi giorni cade il 77.mo anniversario, è emblematico di una concezione della guerra come realizzazione di quel progetto ideologico razzista e superomista che ha caratterizzato larga parte del secondo conflitto mondiale ed ha contribuito a rendere sempre più disumani i rapporti fra quelli che da avversari, si trasformano in nemici e, come tali, risultano degni solo d’essere distrutti. È per tale ragione che Malmedy rimane, ancor oggi, una lezione da non dimenticare.