A metà dicembre, il mese dei portatori di doni si colorava con le bancarelle della fiera di S. Lucia. Scendevano a Trento dalla maggior parte dei paesi del Trentino poiché l’appuntamento mercantile concludeva le grandi fiere dell’anno.
Non si sa con esattezza quando prese piede la fiera di S. Lucia, a Trento. Di certo, nei primi decenni dell’Ottocento era già attiva un’esposizione di “banchetti” nelle vie della parrocchia di S. Pietro nella cui chiesa c’è una statua della patrona dei ciechi. Nel 1828 l’imperial Regio Capitanato del Circolo di Trento sollecitò il Magistrato politico economicodella città (l’attuale sindaco) “a toglimento di sussurri e schiassi molesti ai pacifici cittadini, che il giorno 12 corrente destinato per la fiera di S. Lucia la medesima debba cessare, rispettivamente ai banchetti, all’Ave Maria in modo che nissun proprietario di banchetti possa far uso del lume. Ai negozianti sarà però permesso, bramandolo, di tenere aperte le loro botteghe anche la sera facendo uso dei lumi” (Archivio storico comune di Trento, 1828). L’anno seguente (1829) la fiera di S. Lucia si tenne il lunedì 14 dicembre poiché “secondo le sovrane disposizioni [erano] proibite fiere e mercati nei giorni festivi” e quell’anno la fiera sarebbe caduta di domenica. Un anno dopo “siccome la vigilia ricorre in giorno di domenica, così la festa che in quel giorno soleva farsi, avrà luogo nel giorno 11 corrente [sabato]”.
La conclusione della fiera al suono dell’Ave Maria doveva aver dato risultati positivi, almeno per l’ordine pubblico se, nel 1830, il Commissariato di polizia scriveva al comune “quanto salutari siano le norme pubblicate coll’avviso del 9 dicembre 1828; il buon successo di due anni lo ha abbastanza comprovato”. Per tale motivo, la circolare restava “in permanente vigore”.
La fiera di S. Lucia, a Trento, cominciava di solito la mattina del 12 dicembre. Le bancarelle occupavano tutto il centro storico. Un tempo, per l’occasione, dalla Val di Cembra e dal Pianetanoarrivano i venditori di oggetti di legno. Le donne di Albiano scendevano in città portando al collo lunghe collane di marroni, infilati in uno spago (“le sfilze de castègne”), che vendevano come prodotto tradizionale. A Trento i sacchi di castagne erano allineati sul marciapiede, davanti al municipio, in via Belenzani. E le donne incitavano l’acquisto gridando “Castègne, castègne bòne de Albiàn; prevaléven(approfittatene) chè l’è le pu bòne”.
Le castagne di Albiano erano proposte anche alle fiere di S. Giuseppe (19 marzo) a Trento e della Lazzera (la domenica di Passione), a Lavis. Per poterli conservare sino alla primavera, i marroni erano affumicati ed essiccati sotto la cappa del camino. Nel giorno della fiera di S. Lucia, sulle bancarelle trionfava il “mandorlato” e si vendevano i “sughini”. Scriveva (1860) Francesco Stefano Bartolamei (Cenni intorno al carattere, ai costumi e alle usanze del popolo perginese):
“Sino a questi ultimi tempi [1860] era in uso suggerire ai fanciulli di ambedue i sesso, che la notte precedente la festa di san Nicolò e di santa Lucia, esponessero in una fenestra della loro camera un piatto pieno di semola per l’asinello di quei due santi, i quali solevano girare in essa notte tutto il paese, all’effetto d’informarsi de’ portamenti di ciascun ragazzo e fanciulla. Si faceva lor credere, che sendo trovati docili, rispettosi, divoti ed applicati ai loro doveri, il santo o la santa, levata la semola, vi riponeva in suo luogo confetti, od altre galanterie di lor gusto; e al contrario vi si sarebbe trovata al mattino una sferza per punire la loro disubbidienza e la loro pigrizia. Questa usanza, per rozza e materiale che fosse, non lasciava però produrre nei giovanetti il miglior effetto. Sul fare del giorno essi correvan alla fenestra per vedere in che trasmutata si fosse la semola. Il premio qualunque li rendeva contenti, allegri, e pieni di buona volontà nel fare il bene; e la sola vista della sferza correggeva i meno morigerati”.
L’usanza restò immutata per altri cento anni. La sera del 12 dicembre, i piccoli mettevano sul davanzale un piatto (el piatèl) con un pugno di farina gialla e uno di sale (per l’asinello della Santa). L’indomani avrebbero trovato: un paio di calzettoni o di babbucce di lana, alcune carrube, un quaderno, due matite, un pugno di nespole, un grappolo d’uva rinsecchita, noci, castagne. I mandarini e qualche arancia sarebbero arrivati solo dopo il 1960. Così come, per trovare nel piatto i giocattoli, che S. Lucia portava soltanto ai figli dei ricchi, si sarebbero dovuti attendere gli anni Settanta. Chi si era comportato male, al posto dei dolci poteva trovare “na visc’ia” o “na bachéta”, insomma una verga che sarebbe stata usata dai genitori.
La sera della vigilia, prima di andare a letto (perché era impossibile vedere S. Lucia, diversamente se ne sarebbe andata senza doni), ai piccoli si cantavano o recitavano filastrocche come questa:
“Santa Luzia l’ei vizina /matelòti né a dormir/ meté fora la farina/ e non feve pù sentir./ El la guida ‘n anzolét/ el la porta ‘n asenèl/ la vegn dent da tramontana/ la va fora dal Castèl./ La ga ‘n gàida tanta roba/ da magnar e da ciuciàr/ e co l’asen dala goba/ la va dentro nel bazàr./ Guai però se i popi i ziga/ guai a quei che no i ubidiss./ Santa Luzia la va via/ e la sgola en Paradis”.
Intanto, nella notte di S. Lucia, per le vie delle borgate (Pergine, Levico, Novaledo, Caldonazzo, Denno, Vezzano, Cadine) gli adolescenti, i quali ormai a S. Luzia non credevano più, giravano con la strozega de scandorloti (barattoli legati tra loro) e facevano uno strepito del diavolo. I più intraprendenti andavano in canonica a farsi prestare i campanelli che si usavano per le funzioni in chiesa. A notte fonda scampanellavano a lungo (a Caldonazzo è celebre “la scampanelàda de S. Luzia”) e poi si nascondevano sotto i portici. Era una questua che aveva lo scopo di ottenere dolci e qualche soldo da genitori ed amici, una sorta di ricatto: “se non ci date qualcosa, continuamo a far baccano”.
Tali “dimostrazioni” resistono in numerosi paesi, accompagnate dal suono insistente dei campanelli alle porte delle abitazioni. Replica delle comparsate, nel nome di Hallowin, la notte di Ognissanti che hanno preso piede da qualche anno anche qui.
Intanto, il 13 dicembre si fa sagra a Grumes, il villaggio del comune di Altavalle, nella parte alta della val di Cembra. Da almeno cinque secoli, la chiesa del villaggio in sponda destra dell’Avisio è dedicata a S. Lucia. Negli atti visitali (1537) degli inviati del cardinale Bernardo Clesio, la cappella è detta di S. Agata e, forse, c’è un motivo. Secondo la vita leggendaria, la martire siracusana avrebbe donato tutti i propri beni ai poveri dopo la guarigione della madre da lei attribuita per l’appunto a S. Agata. Menzionata fin dal 1398, segno di una comunità permanente attorno ai Masi della montagna di Grumes, la dedica a S. Lucia è citata in modo stabile dal 1584 quando divenne “curazia” (aveva cioè un prete stabile) assieme alla chiesa di S. Cristoforo e S. Martino a Grauno. Dopo la metà del XVIII secolo la cappella di Grumes fu ricostruita come testimoniano gli affreschi tiepoleschi di Valentino Rovisi (1767). Ampliamemnti si ebbero del 1842 e 1898. Il campanile a cipolla, isolato dall’abside, è del 1834.
Nella diocesi di Trento, altre parrocchiali sono dedicate alla patrona dei ciechi. A Castello di Fiemme, sul dosso di S. Lucia (dove c’era una cappella), nel 1850 fu fabbricata la chiesa poi dedicata a S. Giorgio. A Giustino (Vadaione) in val Rendena (1454 su precedente cappella del XIII secolo); a Fiavé, a Pietramurata di Dro. Cappelle sono dedicate a S. Lucia a: Caltron di Cles (1326), a Campo Tassullo (1488); a Fondo(1271); Chizzola di Ala (fine XIII sec.), nel cimitero di Villalagarina (1396).
In val di Peio, la cappella cimiteriale di Comasine (citata nel 1374), sul colle oltre l’abitato, fu danneggiata da due valanghe precipitate giusto il 13 dicembre 1916, anno di guerra e di nevicate tanto copiose. A causa delle valanghe, quell’inverno, morirono diecimila soldati impegnati sui fronti della Grande guerra. Ben più tragica era stata per Comasine la valanga, precipitata dal Töf de l’Acqua il 26 febbraio 1888 e che aveva spazzato via parte dell’abitato uccidendo nove persone.
Nel terzo millennio, dissacrata la fiaba e venuta meno l’attesa spasmodica di un dono S. Lucia si vedere in giro per le piazze e per le strade. Di solito è vestita di bianco, con il volto coperto da un velo (perché resta pur sempre ipovedente), è scarrozzata su un calesse carico di pacchi e trainato da un quadrupede. Distribuisce dolciumi ai bambini. Talvolta scende dal cielo con un elicottero, ma si tratta di iniziative particolari gestite da gruppi di volontariato e destinate agli anziani di qualche casa di riposo (“a otto ani s’è putèi, a ottanta ancora quéi”) o ai bambini ricoverati in ospedale.
Lo stesso copione è seguito da Babbo Natale, il Sancta Klaus vestito di rosso che pare aver cancellato la figura di Gesù Bambino e del Natale, bruciati sulla pira del dio del consumo. Ai presepi allestiti nelle chiese o negli avvolti dei villaggi di montagna fanno da contrappunto i “babbinatale” gonfiati fuori dai centri commerciali. E comincia quel rito dell’augurio a chi si incontra. Sia pure attraverso la mascherina: “Ben, auguri se non ne vendén”. Che è come sottolineare il natale dell’effimero e l’annuncio di quel trionfo del nulla che sono i mille messaggi che da qui a fine anno inonderanno l’etere. Per perdersi come un fruscio nel buio delle notti d’inverno.
(2.- continua)
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