Le reti televisive abbondano di immagini e di spot promo-pubblicitari di panettoni e pandoro. Raramente fanno cenno allo zelten, il dolce che un tempo si infornava “raramente” (probabilmente da qui il nome). Maurizio Gentilini, che da anni vive a Roma, non ha dimenticato i sapori dell’infanzia a Borgo Sacco e della tradizione natalizia familiare.
Ed ecco pronto lo Zelten. Dolce antico, legato a tradizioni e ritualità comuni ai due versanti dell’arco alpino orientale, affacciati sui due grandi bacini culturali europei e da essi contaminati. Una possibile etimologia fa risalire il termine all’avverbio altotedesco “selten”, stante a significare “talvolta” e a sottolineare l’eccezionalità della sua preparazione, circoscritta al periodo natalizio, quando anche la povera gente si concedeva il lusso di un dolce ricco di sostanza e di sapore.
Un dolce alla cui preparazione contribuiva tutta la famiglia, infornato dopo che il capofamiglia aveva tracciato sull’impasto una croce e che andava mangiato tutti insieme al rientro dalla messa di mezzanotte, come gesto di ringraziamento. Anche ai giorni nostri – quando la memoria di questi elementi culturali si è quasi completamente diluita nelle logiche alienanti della globalizzazione – non si tratta di una semplice ricetta di un dolce (più o meno) natalizio, di un banale preparato alimentare frutto di una combinazione (più o meno) esatta di ingredienti, lavorazione, cottura, confezione.
Per chi ogni anno si cimenta nella sua preparazione, lo zelten è innanzitutto il risultato di una giornata di fatica e di passione, di un impegno fisico e interiore che è deciso e affrontato quando si raggiunge e si oltrepassa un certo grado di inquietudine. Uno stato emotivo che nasce e cresce durante il tempo d’Avvento; che prima ti ha fatto progressivamente accumulare in dispensa tutti gli ingredienti necessari; poi ti ha fatto uscire nuovamente di casa per recuperare quel tal elemento che ancora ti sembrava mancare o essere in quantità insufficiente per la preparazione; poi ti ha indotto a pensare alla piccola variante che ogni anno si introduce nella ricetta per renderla sempre leggermente diversa e personalizzata, pur nel rispetto dell’ortodossia dettata dalla lista degli ingredienti base e dei sapori registrati fin dall’infanzia dalle endorfine e collegati alla memoria affettiva.
Quella che ti fa prendere la “decisione irrevocabile” di chiuderti in cucina e iniziare la “singolar tenzone” con frutta secca, uova, farina, burro, zucchero, miele e aromi (tutti rigorosamente naturali), è una singolare condizione dello spirito e una particolare predisposizione dell’animo. Un’alchimia che a volte scatta a inizio dicembre, forse ispirata dalla figura di San Nicola – Sanctus Nicolaus – Santa Klaus, il santo portatore di doni e prosperità, tanto leggendario quanto riconosciuto e venerato da culture e popoli estremamente diversi tra loro, come diverse sono le latitudini a cui vivono.
Talvolta occorre attendere i giorni che precedono il Natale, spesso tanto caotici e convulsi da indurci a ricercare una bolla di serenità sbucciando mandorle, sgusciando noci, impastando e infornando. A volte l’equilibrio necessario lo si raggiunge solo verso l’Epifania, quasi fosse un dono dei re magi. La giusta condizione può verificarsi persino a gennaio inoltrato, forse per intercessione di Sant’Antonio Abate …
Poi, si comincia. Ed è un inizio e un procedere segnato dall’immersione – non slegata da un certo stordimento – nei profumi e nelle fragranze del miele, del cedro candito, del rhum e della cannella, temperati e armonizzati da un bicchierino di grappa (uno per l’impasto, uno per l’impastatore, a conforto delle fatiche della preparazione), e magari da una buona musica di sottofondo. Chi scrive ha trovato nelle “Danze rumene” di Bela Bartok l’ideale colonna sonora per la corretta percezione, la giusta comprensione, la perfetta comunione di una e in una ancestrale identità mitteleuropea entro la quale questa ricetta si colloca culturalmente ed esistenzialmente. Un’identità che, come poche altre, è comunque frutto di incontri e confronti, meticciati e ibridazioni, e che nella cultura alimentare e nelle tradizioni gastronomiche popolari trova una delle poche sintesi complete e credibili.
Non appena infornati gli stampi ripieni del loro contenuto, tutte le essenze si amalgamano nella cottura e si propagano nell’ambiente, generando intriganti sensazioni e risvegliando ulteriori stimoli sensoriali, immagazzinati nella memoria profonda fin dall’infanzia e in parte ereditati dalle generazioni passate.
A fine cottura, ritirati dal forno gli zelten (di solito sono più di uno) e lasciati raffreddare, la particolare atmosfera che ha accompagnato tutta la preparazione poco a poco svanisce, tornando presente solo in occasione di ogni assaggio, quando il senso del gusto diventa l’unico vettore e interprete di quanto descritto, sprigionando e rinnovando ad ogni morso tutte le sensazioni di cui si è accennato.Eppure trattasi di un semplice dolce natalizio a base di frutta secca, di quelli (più o meno simili tra loro) che si trovano un po’ in tutte le tradizioni regionali. Dalla Tunisia all’Alsazia, dalla Sicilia alla Carinzia, dal Libano alla Camargue, dalla Dalmazia alla Slesia, dalla Navarra all’Anatolia. Un dolce d’inverno, un appuntamento col Natale.