Raccontai così, esattamente dieci anni fa, una intervista che doveva essere un’altra intervista. La storia di un incontro mattutino in una casa lungo il Fersina, a Trento. Dove – idea iniziale – far parlare Roberto Moggio, che è stato il protagonista di una vita che sembra un romanzo, ma lui non ve lo avrebbe mai detto, schivo qual era. C’era (e c’è) la Marcialonga in gennaio, perché non parlarne con Roberto Moggio, che ne è stato uno degli inventori, nel cuore degli anni Settanta? Di più: che ne ha inventato il nome, persino.
Bene, della Marcialonga disse poco o niente. “C’é, va avanti bene, è stata una scommessa vinta, che senso avrebbe parlarne? Lasciamo che il bravo comitato, cui oggi tocca organizzare questa festa dello sport e dell’agonismo, lavori in pace”. Moggio dixit. Era appena rientrato in casa. Erano le dieci del mattino e le due ore quotidiane di footing – una passeggiata dal sapore quasi atletico lungo i sentieri del bosco, in rigida e voluta solitudine – erano già alle spalle. Una doccia ed eccolo il nostro, allora 87 anni portati con invidiabile atleticità (si badi: invidia positiva, partecipazione alla vita e ai progetti degli altri, con Moggio altro non era possibile). Ripose il telefonino: “Ecco, non lo uso mai. Solo durante le mie passeggiate solitarie, per precauzione, me lo porto dietro. Ma se qualcuno deve chiamarmi, lo fa al telefono di casa”.
Computer? “Lo uso come una macchina da scrivere, niente internet, niente email. Ma non è snobismo verso la tecnologia. È che il computer è più forte di me in questo caso, e per vincere non ho che questo metodo. Sono fatto così. Ritengo di essere una persona diretta, se ho qualcosa da dire lo dico. Niente ipocrisia, niente compromessi. Forse questo può aver dato di me talvolta una immagine un po’ dura, ma io sono tranquillo con me stesso. E non è poco. Forse è per questo che quando mi offrirono la possibilità di mettermi in politica, dissi no. Avrei potuto diventare consigliere provinciale, furono i repubblicani, al tempo, a propormelo. Dissi no. Va bene così, evidentemente.”
Poi, casualmente come capita quando ci si incontra per la prima volta, ecco che cosa si andò a scoprire. Con lui ci era incrociati nel 1991, ai Mondiali della val di Fiemme (che diamine, in Trentino dove c’era sport – calcio escluso, il “balon” non gli è mai andato a genio – lui c’è sempre stato), ma il resto è affidato alle cose lette, alla stima e all’affetto percepito ogni volta che chi lo ha conosciuto trova modo di parlarne.
A casa sua, dunque. Dove tutto raccontava di sport, a partire dalla gigantografia con un collage dei titoli di giornale che gli sono stati dedicati negli anni, regalo di un amico indimenticabile: Flavio Faganello. Dove tutto raccontava della sua famiglia. Dove la musica era fatta prima di tutto dal jazz, passione inossidabile, sotto pelle; ah, il jazz, con quel rimpianto mai sopito. Era tutto pronto per organizzare un festival internazionale a Trento, Oscar Peterson ospite d’onore. Andò buca perché un assessore alla cultura fece mancare il suo apporto. “Non mi ricordo neppure chi fosse, spiace solo che Trento abbia perso una occasione importante”.
Ma è da qui, dalla passione per la musica, che all’improvviso arrivò un’altra storia. Intuita nella tastiera elettrica, in una piccola stanza – “il mio sancta sanctorum” – dove le foto di una vita appese al muro, i diplomi, gli attestati, le onorificenze, trovavano il loro senso più compiuto in piccoli bigliettini vergati con mano spesso incerta. Erano i ringraziamenti di tante persone anziane – “i miei coetanei, io sto bene con loro” – cui, per anni, con discrezione quasi totale Roberto Moggio ha regalato il suo tempo. E la sua creatività.
Sissignori. “E’ il mio volontariato, che mi piace e che mi rinnova. Vado nelle case di riposo, suono le melodie di canzoni che nessuno suona più. E racconto storie. Mi piace andarle a scovare, mi piace restituirle agli altri, ai miei coetanei. Per Natale ho ricostruito la storia di “Stille Nacht”, creata da un giovane parroco salisburghese, nel 1816 ed oggi tradotta in 300 lingue. E ho anche musicato una versione natalizia, struggente, di “Lilì Marlene”. Nasce da un ricordo indelebile, di quando, nel Natale del 1944, mi trovavo sul fronte russo polacco, reclutato dai nazisti. Lì ascoltammo una versione totalmente cambiata rispetto all’originale. La nostalgia diventava speranza. E io suono queste canzoni e loro, gli anziani, ballano e qualche volta fanno il trenino attraverso la stanza. C’è chi, magari, si unisce spingendo la carrozzella sulla quale si trova costretto, da anni. E io suono, e li sento felici e allegri e questo mi basta. Suono ad orecchio, non conosco la musica. Bontà loro, mi hanno detto che possiedo una specie di orecchio assoluto per la melodia. Forse mi ritornano le note della balera, di Villa Alessandra, in corso 3 novembre a Trento, dove la mia generazione ha passato il tempo duro ma spensierato della gioventù”.
Non c’era posa, non c’era falso pietismo in quel che faceva Roberto Moggio. Perché, prima di tutto, piaceva a lui, enormemente, quel che faceva. “Il mio motto è: attaccare vita ai giorni e non giorni alla vita”. In un ordinato quadernone teneva i titoli delle 288 canzoni – sì, duecentottantotto, divise per argomenti – che in qualsiasi momento era in grado di sciorinare. Era la sua tana dei ricordi, la beata ingenua semplicità di “Marameo perché sei morto”, “Bombolo”, “Eulalia Torricelli”, “Balocchi e profumi”. Le canzoni di Rabagliati, Gigli, Tagliavini, Tito Schipa, quelle degli organini da barberia.
“La colonna sonora – diceva – di una esistenza che era semplice ma dignitosa. Un mondo ormai lontano che certo genera struggente nostalgia. Nel mio spartito senza note ci sono tutte: canzoni allegre, tristi, d’amore. Io li faccio ballare, i miei anziani. Voglio loro bene”.
Eravamo venuti per la Marcialonga, quel giorno. Raccontammo di pomeriggi musicali e danzanti nelle case di riposo, preparati con professionalità estrema, nello stile dell’uomo. L’amore assoluto che Moggio ha avuto per la “sua” Trento, quando la percorreva in lungo e in largo, a partire dai Casoni; della vacanza dei veterani sportivi trentini che ogni estate organizzava a Marina di Camerota, arrivando a scrivere i testi degli sketches umoristici; di una infanzia non facile, con cinque anni di collegio a Torino, con rinunce dolorose, che l’hanno segnato ma anche formato; degli amici di una vita, “fratelli”: Bill Cestari, Cesare Maestri, Rolly Marchi; di una carriera sportiva di prim’ordine; di una altrettanto brillante giornalistica. Eravamo venuti per la Marcialonga e per lo sport, inteso come riscatto e rivincita sociale e apertura culturale. Eravamo venuti per Moggio inviato della Rai ad Olimpiadi, mondiali ed altri eventi internazionali. Per il Moggio cronista che ricostruisce i tragici fatti del “caso Garollo” e della corriera finita nel burrone a Candriai. Per il Moggio che sceglie ad un certo punto una carriera diversa e diventa dirigente della Fiat Rangoni, dove vive gli anni ruggenti del boom economico, tra automobili e motociclette. Del Moggio che fa nascere squadre di basket ed atletica, che corre e vince alla Trento Bondone nel 1955.
A proposito: l’indimenticato Ottone “Bill” Cestari dedicò a Roberto Moggio, nel primo dei due volumi del monumentale e a tutt’oggi insuperato “Il chi è? dello sport”, enciclopedia trentina edita nel 1977 dalla Editrice Panorama poche righe: uno stile giornalistico asciutto, essenziale, documentato che era anche il rinnovellare amicizie vere, proprio come quella tra Bill e Bob…
“Il famoso giornalista sportivo Gianni Brera lo ha giustamente definito come “il più classico dei marciatori”. Dotato di uno stile pressoché perfetto e di una grinta agonistica assolutamente eccezionale, l’asciutto atleta trentino, allievo prediletto dell’indimenticato Enrico Baratto, ha infatti ottenuto nella sua carriera delle prestazioni formidabili, nonostante le molteplici attività espletate anche in altri settori che non gli hanno mai consentito una preparazione ed un’applicazione adeguata. Nel 1949, ad esempio, pur gareggiando da solo contro il cronometro è riuscito sulla dura pista di Trento a segnare sui 10 km il tempo di 46’09’’7, quarto tempo stagionale nella graduatoria mondiale della specialità. Prima di quella prodezza, rimasta poi per lunghissimi decenni nella tabella dei primati regionali, il magrissimo “Bob” aveva vinto due titoli italiani e soltanto per un dannato callo, suppuratosi qualche ora prima della partenza della rappresentativa italiana per Londra, non ha potuto essere accanto all’amico Dordoni nella gara di marcia dell’Olimpiade del 1948. Fra le sue vittorie di maggior spicco vanno ricordate quella del Giro di Napoli, quella di Varese nel campionato italiano di 2^ serie, la Trento – San Cristoforo del 1950 vinta davanti ad autentici fuoriclasse come Cressevich e Malaspina. Nei suoi anni giovanili ha partecipato anche alla classica traversata del Po, concludendo al terzo posto alle spalle dei formidabili nuotatori Signori ed Ogno che lo hanno raggiunto …soltanto in acqua”.
Eravamo venuti per questo e ce ne andammo con le sue canzoni e le sue storie, generosamente restituite a regalare momenti di allegria e serenità. E siccome la vita è fatta di anche di lampi e di sensazioni, di improvvisi rimandi, quando lo salutammo ci passò per la testa il titolo di un libro. “Confesso che ho vissuto”. Sì, è stato proprio così per Roberto Moggio.