La precedente puntata di questa straordinaria immersione dello scrittore e regista Renzo Fracalossi nello spinoso tema del razzismo e dell’antisemitismo, si è occupata della Spagna e di ciò che accadde agli israeliti all’alba dell’evo moderno (1492). Il “viaggio” nella diaspora del popolo eletto prosegue nelle terre del Papa re e nella penisola dei mille potentati.
La vicenda degli ebrei italiani è indissolubilmente legata soprattutto alle comunità ebraiche di Roma e di Venezia, anche se presenze ebraiche sono segnalate un po’ in tutta la penisola, in particolar modo a seguito della cacciata dalla Spagna. Livorno, Ancona, Torino, Milano, Trieste, Bologna, Firenze e poi in larga parte del meridione ospitano comunità, commerci, sinagoghe.
Roma però fa storia a sé. Qui infatti gli ebrei risiedono ben prima dell’avvento del cristianesimo e subiscono cicliche persecuzioni dagli imperatori romani, ma anche periodi di relativa tranquillità, culminati alla fine del VI secolo d.C. nella decisione del pontefice Gregorio Magno di concedere alla comunità ebraica il rispetto del loro culto e delle loro tradizioni. Si viene così a definire una sorta di “protezione” papale che prosegue anche con Innocenzo III, Onorio III e Gregorio IX, al punto che nell’anno Mille alcuni ebrei assumono anche importanti incarichi in Curia e monopolizzano le professioni mediche e di consulenza finanziaria per i Papi. Roma è l’unica città europea dalla quale nessun ebreo è mai stato espulso. Si tratta di una precisa scelta della Chiesa che non può permettersi, nel suo massimo centro religioso, persecuzioni visibili, perché ne andrebbe dell’immagine stessa del cristianesimo.
La posizione del papato è però spesso equivoca: nelle terre dei Papi si usa un metro ed altrove un altro. Infatti, il rapporto con gli ebrei, secondo la Santa Sede, tocca anzitutto gli articoli di fede ed è per tale ragione che i pontefici si permettono, nei loro territori, delle particolari libertà interpretative che altrove sono altrimenti oggetto di condanna da parte della stessa Chiesa. Se a ciò si aggiunge la possibilità di avere denaro ebraico a basso interesse per le sempre più esigenti necessità del pontefice, ecco chiariti i motivi di una certa magnanimità del “trono di Pietro” verso i giudèi.
Il clima italiano è quindi, per secoli, complessivamente tollerante, come testimonia l’esempio di Venezia, dove molte famiglie ebraiche si stabiliscono, entrando nelle attività commerciali della Serenissima ed offrendo a quest’ultima la straordinaria rete dei contatti che i mercanti ebrei possono vantare in tutta Europa e nel mondo arabo prima e turco poi. Per una repubblica che si regge sulla circolazione di merci e denaro, si tratta di una risorsa preziosa ed irrinunciabile, in cambio della quale si garantisce, seppur con fasi alterne, una tranquillità esistenziale agli ebrei, sconosciuta nel resto del continente.
In breve, Venezia diventa una sorta di rifugio ottimale, come del resto larga parte d’Italia, per quanti fuggono da persecuzioni ed espulsioni negli altri Stati europei. Nella florida città lagunare, gli ebrei piantano quindi radici profonde come testimoniano molti cognomi di origine prevalentemente ashkenazita: Luzzato che deriva da Lausitz, cioè la regione tedesca della Lusazia; oppure Ottolenghi che identifica gli ebrei provenienti dal territorio della città tedesca di Oettlingen o Morpurgo che si rifà a Marburg o Treves che denuncia l’origine di Trier/Treviri e poi ancora cognomi come Provenzali, Tedesco e via dicendo. Una contaminazione importante, che da lustro e ricchezza alla Serenissima, in cambio di convivenza e tolleranza.
Solo con la metà del XVI secolo questa situazione muta in modo evidente, quando, con l’avvento dell’Ordine dei Gesuiti ribolle la critica teologica al Talmud e prende corpo una rigida intransigenza antiebraica che dà avvio a inedite persecuzioni, iniziate con l’elezione al soglio pontificio di Papa Paolo IV. Egli stabilisce, ad esempio, che gli ebrei romani debbano vivere solo in un quartiere cittadino a loro destinato e debbano portare un segno di riconoscimento sugli abiti. Ma non solo. Agli ebrei vengono inibite molte attività professionali e nel ghetto di Roma si lavora esclusivamente con il commercio di materassi, di abiti usati e di cianfrusaglie, senza poter più prestare denaro ad interesse o svolgere altre attività lucrose. La comunità ebraica romana, raccolta attorno al Portico d’Ottavia, è così costretta ad una decadenza che sviluppa miseria ed emarginazione e che indica la strada per altri ghetti ed altre segregazioni nelle città italiane.
A Venezia la situazione invece non subisce grandi mutamenti nello scorrere dei secoli. Gli ebrei vivono da sempre in una specifica area della città, nei pressi delle fonderie dove si “getta” la colata di materiale fuso. L’atto del “getto” diventa ben presto nelle espressioni dialettali “ghèto” e poi “ghetto”, aperto e chiuso a fasi alterne e da dove gli ebrei vengono talora inviati sulla terra ferma o nell’entroterra veneto se più forte si fa la pressione della Chiesa e dove fanno poi rientro quando le situazioni si placano o quando gli interessi della repubblica diventano prevalenti. La vitalità del ghetto di Venezia è talmente proverbiale che nel linguaggio delle regioni ad influsso veneto la parola “ghèto” indica tutt’oggi confusione e caos, esattamente ciò che regna nel ghetto della città sull’acqua.
Dopo l’emancipazione degli ebrei d’Europa, voluta da Napoleone sulla scorta dei principi egualitari della Rivoluzione francese, è solo nel 1848 che, a Roma e per ordine di Pio IX, le mura del ghetto sono rase al suolo e gli ebrei romani ritrovano così le strade del mondo. Ma si tratta di una fase breve, brevissima. Dopo i moti rivoluzionari di quell’anno, il Papa sospende ogni altra concessione agli ebrei ed anzi approva, informalmente, l’iniqua pratica del battesimo abusivo di bambini ebrei, con la scusa di un loro stato di pericolo a causa del quale chiunque può esercitare appunto il sacramento battesimale, per evitare all’anima innocente l’infinita ed eterna incertezza del Limbo. Il bimbo, così battezzato, entra quindi nella comunità cristiana e ciò giustifica la sottrazione, anche con la forza, dei bambini alle loro legittime famiglie e la destinazione al convento ed alla carriera ecclesiastica, come dimostra l’abominio del famoso “caso Mortara”, alla metà dell’Ottocento, nella Bologna papalina.
Con il 1870 e l’arrivo dei bersaglieri piemontesi, Roma diventa prima italiana e poi capitale del regno. Tutte le normative fin ad allora in vigore in tema di discriminazione decadono e gli ebrei italiani in genere si integrano nel nascente Paese nuovo, al punto che pochi anni dopo sarà proprio Roma ad avere un sindaco ebreo nella persona di Ernesto Nathan, tutt’oggi ricordato come figura eccelsa ed ottimo amministratore pubblico.
Verrà poi il fascismo, negli anni 1937/38, a riscoprire e rivitalizzare l’antisemitismo in Italia, perseguitando improvvisamente i cittadini italiani di fede e cultura ebraica, in un crescendo che si consuma con la deportazione degli ebrei romani prima (ottobre 1943) e veneziani poi (dicembre 1943/febbraio 1944) ed il loro avvio verso la “soluzione finale”.
(7. – continua – Le precedenti puntate sono state il 22 settembre, 27 settembre, 5, 11 , 21 e 27 ottobre 2021)