Edmondo Berselli (1951-2010), “grande firma” del “Resto del Carlino”, del “Messaggero”, della “Stampa”, di “Repubblica” e “L’Espresso” è vissuto a Rovereto dall’età di tre anni alla prima superiore. A Rovereto ha legato l’infanzia e avviato l’adolescenza. E a Rovereto è sempre tornato con l’affetto che porta il ritorno alle radici. Nel 2009 ha pubblicato “Attraverso Rovereto”; nel 2019 è uscito postumo “Rovereto, nuovi sguardi sulla città”. Lo rammenta Patrizia Belli che a Rovereto, dove vive, dedica da sempre affetto e passione.
Edmondo Berselli, giornalista e scrittore scomparso nel 2010, nacque nel cuore più profondo dell’Emilia, in un piccolo paese: Campogalliano, in provincia di Modena, nel 1951. Per dodici anni, fra il 1954 e il 1966, abitò a Rovereto con la sua famiglia, arrivata a Rovereto per ragioni di lavoro. Un vivace racconto di questi anni si può trovare nel suo libro “Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del ’68 “. Ha sempre mantenuto con il Trentino un rapporto di affetto, e considerò la nomina a socio corrispondente dell’Accademia degli Agiati di Rovereto come il coronamento di un legame indissolubile. Fu un affettuoso amico della Biblioteca Civica Tartarotti e del suo allora direttore Gianmarco Baldi. Non era difficile incontrarlo con la moglie e l’amato cane fra il Mart e piazza Rosmini, o in qualche escursione sugli altopiani. Con il passare del tempo considerò Rovereto una seconda patria, con quell’affetto particolare che si rivolge alle città in cui è bello ritornare, anche se si sa che poi si dovrà partire.
Il libro che lui dedicò a Rovereto (edito da Egon dell’editrice Emanuela Zandonai e con le fotografie di Ewa-Mari Johansson e Massimo Mastrorillo), che ebbi il privilegio di presentare al Mart, non è né una guida, né un’opera storica, né un trattato urbanistico o un saggio d’arte, piuttosto è una dichiarazione d’amore. O forse meglio sarebbe dire che è un viaggio compiuto con gli occhi di un innamorato. E sono occhi particolari perché Berselli visse a Rovereto da bambino e lasciò la città da ragazzino. Dal 54 al 66, quindi facendo un rapido calcolo l’autore aveva 3 anni quando giunse e 15 quando se ne andò.
Un viaggio, dicevamo, nel suo significato più aderente quello di esplorazione, di esperienza conoscitiva, ma anche viaggio nel tempo nella Rovereto degli anni 60. Il momento della scrittura fissa questo duplice sguardo: gli occhi del bambino che ingigantiscono le cose e le vestono di incanto e meraviglia e lo sguardo abitato dalla maturità dove le immagini si riducono, si rimpiccioliscono a piccole fotografie dai bordi consunti.
In molti si sono dilettati a scrivere di Rovereto, dai grandi scrittori viaggiatori del 600 e 700 come Montaigne, Paperbroch, De Blainville, che la descrissero come una città “Graziosa e rispettabile “con alcune simpatiche postille curiose, come per esempio il fatto che a Rovereto mancassero quei piumini soffici propri della Germania e si mangiassero non gamberi ma grosse lumache e tartufi.
Poi c’è la Rovereto di Goethe, Mozart, Dante.
E quella mai grigia, dimessa e isolata raccontata da Isabella Bossi Fedrigotti, quella nobile e di alta cultura descritta nelle guide turistiche, la culla illuministica definita dal professor Braitenberg…quella descritta in un blog da una ragazza: “Rovereto multiforme e immobile, adagiata sul fondo della valle come una donna voluttuosamente sdraiata sul letto…
Berselli, già dalle prime righe ci avvisa che Rovereto è ardua da etichettare, che la bellezza è una variabile dell’approccio. Ci dice, recitando Baudelaire che la forma di una città cambia troppo in fretta per il cuore di un mortale, ma gli uomini hanno la possibilità e il privilegio di scegliere la porta d’ingresso per entrarvi, e tentare di farla propria, almeno per il tempo della loro vita.
E ci prende per mano e ci accompagna in questo suo viaggio attraverso Rovereto.
Ci racconta che: “La caratteristica principale della città è un assiduo salire e scendere, con una varietà di livelli che non finisce di sorprendere il cittadino della pianura, ignaro delle altimetrie prealpine”. Ci parla delle montagne, quelle montagne che sono: “Il piacere di girare lo sguardo e restare impigliato ogni volta in qualcosa.” Ci riferisce di strofe e poesie apprese a scuola «Rovereto, città cara, noi t’amiamo con ardore, e dal nostro giovin cuore…» e coi suoi ricordi ci porta al Sacrario dei Caduti e alla commozione che si prova nel guardare il piccolo cimitero austroungarico a Slaghenaufi, una frazione di Lavarone con: “Le croci tutte esattamente uguali come in un triste gioco di specchi, facendo sembrare tanto numerose, ma anche esteticamente perfette, quelle tombe”.
Poi è la volta della Campana: “Che nome fantastico, e come risuona bene, fra i suoi rintocchi, Maria Dolens: sembra un’invocazione a una Madonna del pianto che può essere pronunciata anche da chi non crede”. Ci racconta il tessuto urbano di Rovereto che abbina a: “Un suono particolare, situato idealmente fra l’Ottocento del melodramma e il Novecento della sperimentazione”. Ci conduce al tempo dell’industria con il suo impatto fortissimo, che pare aver concentrato in una sola generazione ciò che altrove ha richiesto tempi più lunghi e che sembra aver lasciato qualcosa di non finito, di esausto nella città. Ci parla del Mart cattedrale laica che somiglia all’arrivo di un gigante nel cortile.
E verso la fine si chiede che cosa manca, insomma, a Rovereto, per essere davvero una capitale? Ecco la risposta: “Forse nulla, dal punto di vista materiale. O forse una basilica importante, un oggetto d’arte e d’architettura tale da richiamare i visitatori. Perché non è così agevole spiegare che la nostra piccolissima Atene, se è ancora consentito chiamarla così, mentre molti parlano di un suo declino, è un’opera d’arte in sé, un capolavoro informale fabbricato lasciando molta parte al caso, cioè in verità all’eclettismo delle arti e degli stili. E va bene così, perché a una città di frontiera si addice l’intrico delle tendenze, gli ordini architettonici che si succedono di quartiere in quartiere, il neoclassicismo che si confronta con il liberty.”Il messaggio finale mentre ci si appresta a uscire dalla città è proprio questo: ognuno può scegliere la sua Rovereto, perché Rovereto è tante città insieme, o innumerevoli frammenti di città. È un po’ la chiave di lettura di Calvino: le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni di un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di relazioni, di desideri, di ricordi.