La città di Trento e Dante, il sommo poeta della lingua italiana. Vanta un monumento tra i più noti anche perché alzato negli anni della dominazione austriaca sul Trentino, a rivendicare l’italianità di una terra, cerniera e ponte, ai confini col mondo tedesco. Al tramonto del XIX secolo, l’irredentismo, ovvero l’esaltazione di una nazionalità di fronte a una presenza straniera dominante, guardò a quel monumento come a un faro. L’inaugurazione del monumento fu fissata l’11 ottobre 1896. Vale a dire 125 anni fa. Il tempo minacciava pioggia. In mattinata, al cimitero monumentale di Trento furono poste corone di fiori sulle tombe del podestà Paolo Oss Mazzurana, Carlo Dordi e don Giuseppe Grazioli, alcuni dei promotori dell’opera morti prima di vederne il compimento.
Sette secoli fa, nella notte fra il 13 e il 14 settembre del 1321 Dante Alighieri lasciò questo mondo per uno dei tre regni oltremondani che aveva sapientemente immaginato e descritto. Fu portato nell’al di là dalla malaria che aveva contratto nel viaggio di ritorno da Venezia. Vi era stato mandato per una ambasciata dal Podestà di Ravenna, Guido Novello da Polenta, che tre anni prima lo aveva accolto nell’ultima tappa del suo forzato esilio da Firenze. Nel suo vagabondaggio, per sfuggire a una condanna a morte per “baratteria, lucri illeciti ed estorsioni inique”, Dante Alighieri aveva soggiornato a Verona, Treviso, in Lunigiana, Bologna, Milano, Padova e, nuovamente, Verona dove, tra il 1313 e il 1318, era stato ospite di Cangrande della Scala. Era già approdato a Verona al principio del suo ventennale esilio, nel 1302, trovando rifugio alla corte di Bartolomeo della Scala (“Lo primo tuo refugio, il primo ostello/ sarà la cortesia del gran Lombardo/ che ‘n su la scala porta il santo uccello”, vale a dire l’aquila simbolo degli Scaligeri).
Nel primo soggiorno veronese, Dante scrisse il “Convivio” e il “De vulgari eloquentia”, che stabiliva le norme per l’uso della lingua volgare, del parlar comune del popolo. Scrisse l’opera in latino per parlare agli eruditi. Ma il testo che da sette secoli descrive le anime dopo la morte con lo scopo di dare un senso alla miseria degli umani e indicare loro la felicità, è la “Commedia”. Divina, poiché descrive le pene, l’espiazione, la visione salvifica di Dio. Per approdare alla quale è necessario un lungo viaggio, di penitenza e pentimento. Insomma, l’esilio terreno come lo sperimentò egli stesso. “Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale” (Paradiso, canto XVII).
Dante Alighieri esule a Ravenna fu sepolto fuori del chiostro della basilica di San Francesco. Le spoglie furono collocale in un sarcofago romano. Dopo vari trasferimenti, nel 1780 fu fabbricato un tempietto neoclassico indicato come la “sepoltura del poeta Dante” (sull’architrave, la scritta latina: “Dantis poetae sepulcrum”).
Quanto a Trento, il sommo poeta non vi giunse (probabilmente) mai. Almeno non ci sono prove di un suo soggiorno tridentino. Tuttavia, taluni studiosi ipotizzano che possa essere stato ospite di Guglielmo da Castelbarco nel castello di Lizzana. Il soggiorno, se vi fu, spiegherebbe l’origine delle prime terzine del canto XII dell’Inferno, riferite al primo girone del settimo cerchio, quello dei violenti per conto dei tiranni. Nel I girone l’incontro con il Minotauro:
“Era lo loco ov’a scender la riva/ venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco/, tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva./ Qual è quella ruina che nel fianco/ di qua da Trento l’Adice percosse/ o per tremoto o per sostegno manco,/ che da cima del monte, onde si mosse,/ al piano è si la roccia discoscesa,/ ch’alcuna via darebbe a chi su fosse”.
È indicata quale “ruina dantesca” la frana, nei pressi di Marco di Rovereto, causata dal crollo di una parete dal monte Zugna dovuto, probabilmente, a un sisma violento che si verificò nel XI secolo. I terremoti del 1046 e del 1117 che scossero la val Lagarina causarono frane e il distacco di grosse pietre pure dal monte Finonchio, nei pressi di Castel Pietra. Taluni indicano codeste frane e non quelle a sud di Rovereto come la “ruina” citata dal poeta fiorentino.
Alla fine del XIX secolo, con il movimento irredentista che stava prendendo piede nel Tirolo italiano, l’idea di alzare un monumento a Dante divenne l’obiettivo dei “liberi pensatori” di Trento. Era la risposta ai pangermanisti i quali, qualche anno prima (1889), a Bolzano, avevano alzato una statua a Walter von der Vogelweide, un menestrello tedesco vissuto nel XIII secolo.
Fu un avvocato, il consigliere comunale di Trento Guglielmo Ranzi (1859-1938) a caldeggiare l’impresa, rispolverando un progetto del 1886. Dietro di lui c’erano gli aderenti alla “Pro Patria”, alla “Lega Nazionale”, alla società Dante Alighieri e il podestà di Trento, Paolo Oss Mazzurana (1833-1895). Per la raccolta dei fondi e il bando di concorso per l’opera fu designato un Comitato di 48 componenti. Agli artisti fu chiesto di presentare un bozzetto sul tema: “Dante, considerato quale Genio tutelare della lingua e della civiltà italiana nel Trentino”. Furono proposti 42 progetti. Si temeva che le autorità austriache potessero ostacolare il comitato incaricato di raccogliere i denari per realizzare l’opera. E, infatti, il commissario austriaco di polizia, a Trento, tentò invano di contrastare l’installazione del monumento.
Dopo una prima scrematura, fu scelto il bozzetto del fiorentino Cesare Zocchi (1851-1922). Non senza polemiche che si trascinarono per mesi. In particolare da parte dello scultore trentino Andrea Malfatti (1832-1917) e del pittore solandro Bartolomeo Bezzi (1851-1923).
Fusa nel bronzo da Cesare Zocchi, la statua del poeta fu rivolta verso nord, con la mano tesa. Nel ventennio fascista (1922-1943), quella posa fu interpretata e confusa col ritornello dell’Inno di Garibaldi del 1858 (testo di Luigi Mercatini, musica di Alessio Olivieri): “Va’ fuori d’Italia, va’ fuori ch’è l’ora!/ Va’ fuori d’Italia, va’ fuori o stranier”.
Collocato su uno zoccolo di granito di Predazzo, nella piazza della stazione ferroviaria, il monumento a Dante fu inaugurato l’11 ottobre 1896. Alla base fu incisa un’epigrafe dettata dallo stesso Guglielmo Ranzi:
“Inchiniamoci Italiani/ Inchinatevi Stranieri/ Deh! Rialziamoci/ Affratellati nella giustizia”. Sul piedistallo del monumento l’iscrizione: “Al Padre il/ Trentino/ Col plauso/ E l’aiuto della/ Nazione”.
Quel giorno di metà ottobre del 1896 Guglielmo Ranzi disse alla folla: “O fratelli, questa mole superba di bronzo e di granito, che il soffio dell’arte avvia, fu composta con gran sacrificio da un piccolo e povero popolo. Fra mille e mille che portarono l’obolo, pochi erano i ricchi e i dotti, molti i poveri e gli umili; popolani, contadini, montanari di villaggi sperduti ne’ recessi delle Alpi”. Qualche giorno prima dell’inaugurazione, il poeta Giosué Carducci (1835-1907) aveva composto l’ode “Per il monumento di Dante a Trento”: “Così di tempi e genti in vario assalto/ Dante si spazia da ben cinquecento/ Anni de l’Alpi sul tremendo spalto./ Ed or s’è fermo, e par ch’aspetti, a Trento”.
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