Prende il via con questo testo di Renzo Fracalossi il recupero, per la memoria collettiva, di alcuni frammenti della seconda guerra mondiale (1940-1945). Segnatamente di ciò che accadde nella comunità regionale l’indomani dell’armistizio con gli anglo-americani e la resa dell’esercito italiano che scatenò la guerra civile e l’occupazione nazifascista dell’Italia settentrionale.
È una limpida mattinata estiva quella del 2 settembre 1943 a Trento. La gente si appresta a vivere l’ennesima giornata di guerra scandita dai razionamenti, dalle notizie contrastanti dai fronti e dai tentativi di dare un minimo senso alla quotidianità della guerra. Ormai è quasi ora di pranzo quando, in distanza, l’aria si fende e trasporta un crescente ronzio di motori. Non è la prima volta che gli aerei angloamericani sorvolano la città e comunque le sirene d’allarme suonano, almeno per precauzione. Sono le ore 11.40 quando le prime — di ben 152 bombe dal singolo peso di oltre due quintali l’una — escono dal ventre freddo dei B17 dell’Air Force americana e, prigioniere della gravità, si avventano sulla città ed in particolar modo sul popolare rione della Portèla. Nel volgere di pochi attimi tutto è polvere, fumo e morte. Sono circa duecento coloro che vengono “annegati” da quella pioggia di distruzione che scende dal cielo, anche se il numero esatto non si saprà mai ed oltre milleottocento sono le case rase al suolo o danneggiate.
In piazza Duomo, nelle giornate seguenti, si accumulano le macerie e all’ospedale, fra i troppi feriti, giace anche il giovane pittore Gino Pancheri che non sopravvivrà se non per poche ore. I punti nevralgici della città, come la sede delle Poste, il gasometro, la ferrovia ed i ponti sull’Adige sono presidiati dai militari italiani. Nei giorni seguenti al disastro, la città si rimbocca le maniche e prova a riprendere in mano i fili della propria vita. Nel pomeriggio di sei giorni dopo, in Prefettura, si svolge una riunione per la nomina del nuovo Commissario del Comune di Trento, in sostituzione del podestà fascista Mendini, ma senza alcun esito. Quando, ormai in serata, l’incontro si conclude i partecipanti che fanno rientro a casa si accorgono di una certa eccitazione che sembra percorrere la città martoriata, mentre va diffondendosi la notizia dell’avvenuto armistizio italiano.
In Prefettura il dott. Tommaso Pavone non ne sa nulla e spetta al colonnello dei Carabinieri, Michele de Finis, avvisarlo del proclama di Badoglio. I due, privi di indicazioni, provano quindi a rivolgersi al Comando del Corpo d’ Armata a Bolzano, ma anche lì nessuno ha istruzioni, nessuno ha ricevuto ordini, nessuno sa qualcosa in più rispetto a ciò che “Radio Bari” ha trasmesso alle ore 19.45. È il caos.
Come noto, il messaggio è, per alcuni versi, equivoco ed ambiguo, disvelando così tutta la tragica impreparazione italiana, alimentata anche da un certo grado di inefficienza dei comandi militari e da quella improvvisazione che il fascismo, anziché combatterla, ha alimentato per l’intero ventennio. Su quest’orizzonte di incertezze, spicca la pavidità di Casa Savoia, più preoccupata di mettere in salvo la dinastia (e con essa soprattutto la pelle), che non di assumersi la diretta responsabilità del Paese, in un momento oltremodo difficile e complesso.
L’Italia è allo sbando e con essa anche il Trentino e l’ Alto Adige, che già brulicano di reparti tedeschi agli ordini del Feldmaresciallo Albert Kesselring il quale, nei giorni precedenti ed “annusando” l’aria, ha capito perfettamente le intenzioni italiane ed ha quindi agito su due versanti distinti e contrapposti: da un lato ha blandito gli ufficiali italiani assicurando intatto cameratismo e dall’altro, dopo una riunione del suo Stato maggiore ad Egna, ha preparato l’occupazione militare di queste terre. In quest’ottica accadono i fatti più incredibili. A Trento, ad esempio, i tedeschi chiedono molto cortesemente l’uso di alcuni locali per i loro uffici. Concesso, l’immobile scolastico di via Brigata Acqui. Poi, con pari gentilezza, domandano di poter disporre di piante topografiche della città e dei dintorni, accampando generiche scuse. Concesse! Possibile però che nessuno si chieda a cosa possono servire quelle mappe? E così, in una confusione crescente, la trappola sta per scattare.
La sera dell’8 settembre, i soldati italiani di stanza nel capoluogo, dopo la “libera uscita” e le notizie dell’armistizio, rientrano in caserma. Non ci sono ordini di alcun tipo. Gli ufficiali dispongono solo che i militari si corichino vestiti.
Fra le 2 e le 3 di notte, i tedeschi si muovono fulmineamente, come nella loro migliore tradizione militare. Sanno subito dove andare e cosa attaccare. Le sentinelle italiane sono prese talmente alla sprovvista, al punto che gli stessi tedeschi si meravigliano. Eppure le ore precedenti all’attacco sono cariche di segnali premonitori: lancio di razzi luminosi e forte movimento di truppe della Wehrmacht, che viene segnalato dai cittadini anche alle redazioni dei giornali, sia a Trento come a Bolzano. All’inizio in molti credono si tratti di un bombardamento aereo e molte reclute alle caserme “Chiarle” di Trento si affollano verso l’uscita delle camerate per andare nei rifugi. Li ferma, pistola in pugno, un ufficiale evitando così di gettare quei ragazzi in pasto ai reparti corazzati nazisti, già posizionati fuori da tutte le caserme cittadine. Agli italiani viene ordinata l’immediata resa senza condizioni e se ciò non avviene subito, sono le mitragliatrici pesanti ed i cannoni a far sentire la loro voce di morte.
Qualcuno si arrende senza combattere, altri si difendono come possono, altri ancora provano a fuggire. A Rovereto i tedeschi usano addirittura il lanciafiamme per costringere i bersaglieri alla resa. A Bolzano scoppia l’inferno: molti civili di etnia tedesca ricevono armi e bracciali di riconoscimento dal Comando nazista e partecipano così alla caccia agli italiani che il giorno dopo, ormai prigionieri, riempiono il campo sportivo Druso ed il Lungotalvera. A Trento, gli scontri continuano fino all’alba del 9 settembre. Il bilancio è molto pesante: otto morti alle caserme “Chiarle”, nove alle “Battisti”, quattordici al Mas Desert, diciannove in altri obiettivi militari. Cinquanta morti e più di duecento feriti è l’esito finale dello scontro impari, mentre colonne di prigionieri vengono raccolte al campo di volo di Gardolo.
Inizia così il lungo periodo di buio, di equivoci, di errori, di tragedie e di eroismi che passa alla storia come “il dramma dell’Alpenvorland” e che stacca di fatto queste terre, al pari di quelle del litorale adriatico nordorientale, dalle coeve vicende italiane, assorbendole nei destini del III° Reich.
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