La cronaca si è fatta storia – un pezzo di storia, quantomeno -, da un bel po’. Basti dire: il Campionissimo; l’Airone che ripiega le ali; l’uomo solo al comando, la sua maglia è bianco e celeste, il suo nome è Fausto Coppi. Ecco, in queste poche righe, in queste citazioni sparse, c’è il senso dell’affermazione perentoria, del dogma sportivo, che vanno riaffermati, sempre.
Il 2 gennaio del 1960 Fausto Coppi se ne andava. Finiva alle 8 e 45 del mattino la sua agonia. Stroncato dalla malaria. Un flacone di chinino lo avrebbe potuto salvare, tranquillamente. Diverso e atroce fu il destino. La storia dello sport italiano – che è parte integrante della storia di questo scombiccherato Paese – non ha mai conosciuto campione più grande. Ci si può affannare attorno a qualche calciatore (da Meazza a Gigi Riva), a qualche pilota (da Nuvolari a Valentino Rossi), a qualche pugile (da Carnera a Nino Benvenuti), ma il risultato sarebbe sempre ed impietosamente uguale. Fausto Coppi batte tutti per distacco. C’era qualcosa di antico, di mitico, in quel corpo secco ed allungato, in quel torace che sembrava contenere mantici e non polmoni, in quel naso infinito, in quegli occhi grandi e veri, in quelle gambe secche che non smettevano mai di mulinare, in quelle ossa fragili che conobbero cento rotture, che cento volte si spezzarono e mai si piegarono, se non vinte da una malattia rimediata in terra d’Africa. Era fatta di timida eleganza la classe malinconica e senza tempo del Campionissimo. E che sia senza tempo lo dimostra la messe inusitata di ricordi, cerimonie, pubblicazioni che mai – per il vero -, sono venute meno in questi tanti anni senza Fausto.
E quanto Trentino c’è nella vita del Campionissimo. Badate bene. Nel 1949 Coppi entra nella leggenda conquistando per la prima volta la maglia rosa e la maglia gialla. In terra di Francia batte Bartali dopo tappe al confine dell’eroismo e al terzo posto lascia uno scricciolo francese, Jacques Marinelli, figlio di emigrati della Val di Sole. Per una settimana Marinelli è persino davanti a Coppi, prima che Fostò (così i francesi impararono a chiamarlo) compisse sfracelli inenarrabili.
L’anno dopo, come spesso accadrà nella sua tormentata carriera – quasi presagio della terribile ed ingiusta fine -, Coppi fa i conti col dolore. Il 2 giugno del 1950, Giro d’Italia, tappa che passa in Valsugana, cade nei pressi di Primolano. Le ossa del bacino si incrinano in tre punti diversi. L’ambulanza lo porta all’ospedale S. Chiara di Trento. Vi resterà quattro settimane esatte. La sua camera è la numero 20. Qui, poche ore dopo il suo ricovero, riceve la visita di una signora di Varese, Giulia Occhini. Lei è col marito, un medico. Si conoscono da poco ma entrambi hanno forse già capito che la loro è una conoscenza speciale. Adesso sappiamo che lei diventerà la Dama Bianca, che per quel tormentato amore Coppi subirà – da parte di quell’Italia bigotta che gli preferiva il “devoto” Bartali (campione capace di tenergli testa, si badi bene, ad evitare dietrologie stucchevoli) – un ostracismo che divenne a tratti persecuzione.
Quei giorni all’ospedale di Trento – all’epoca in via S. Croce, nel cuore della città, a cento metri da piazza Fiera – sono testimoniati dalla copertina de “Lo sport illustrato” del 22 giugno 1950. Coppi sorride al bambino che, timido, gli sta per chiedere un autografo. Oggi una cosa del genere sarebbe semplicemente impensabile. E scommettiamo che i lettori de “Il Nuovo Trentino” sapranno dare un nome a quel bambino?
Anche questo c’è stato nella breve e leggendaria vita di Fausto Coppi. E ci vorrebbe un grande scrittore – ma in Italia facciamo fatica a trovarne, capaci di raccontare lo sport al di là della cronaca -, che avesse voglia di restituirci quelle quattro settimane di Coppi dolorante e fasciato, in quella cameretta linda dell’ospedale di Trento, assediato da fotografi, tifosi, infermieri. Chi è andato più vicino, nel raccontarne al meglio il mito, resta Gianni Brera. Citarlo qui, tanti anni dopo il giorno che consegnò per sempre il Campionissimo all’imperitura memoria del “più grande”, è solo un modo di ricordarlo bello com’era, sui pedali, il Fausto che vinse tutto, tranne la beffa di un flacone di chinino che nessuno ebbe l’intuito di portare al suo capezzale, in quell’alba fredda del 2 gennaio 1960. “Personalmente mi sono consolato, se era possibile consolarsi, pensando che Fausto abbia voluto morire. Troppo intensamente aveva vissuto per poter reggere ancora alla vita. Ha inventato il ciclismo moderno e al suo stesso epos si è immolato con la precisa coscienza di immolarsi. Del resto, gli eroi autentici vanno per tempo rapiti in cielo. Non possono vivere fra noi, al nostro mediocre livello. Così il leggendario Fausto Coppi da Castellania”. Brera dixit.