In un silenzio sempre più preoccupante è scivolata nel dimenticatoio anche la recente data del 2 agosto, “Giornata europea per la commemorazione dell’olocausto dei Rom”, voluta, nell’anno 2015, dal Parlamento europeo. A qualche giorno da quella ricorrenza, almeno un minimo ricordo potrebbe essere forse esercizio utile, soprattutto per chi annette un valore concreto e quotidiano alla memoria.
In Italia tutto pare aver inizio l’11 settembre 1940. Il Paese è entrato in guerra da tre mesi e l’onnipotente Capo della Polizia, Arturo Bocchini, emana una circolare dove impartisce disposizioni per l’internamento di tutti gli zingari italiani, ovvero Rom, Sinti, Manush e Kalè, per il loro “evidente comportamento antinazionale” e per le loro implicazioni in moltissimi reati comuni. Inoltre c’è un problema razziale. Infatti, il fascista Guido Lantra, un noto antropologo al servizio del regime, afferma in quel periodo che gli zingari “sembrano come noi, ma in realtà sono gruppi che rappresentano un apporto negativo alla razza”. Di quale razza stia parlando è tutt’ora un mistero, posto che gli italiani sono evidentemente il frutto del “melting-pot” della storia europea, raccogliendo in sé radici etniche etrusche, latine, galliche, greche, arabe, ispaniche, germaniche, ebraiche, normanne, slave, longobarde e via dicendo.
Sulla base della circolare Bocchini, viene quindi ordinato il rastrellamento di tutti gli zingari delle singole province italiane, in attesa di ulteriori indicazioni per il successivo internamento.
Con la ben nota rapidità burocratica italica, quelle ulteriori indicazioni arrivano con una circolare del Ministero degli Interni datata 27 aprile 1941 e cioè oltre sette mesi dopo le disposizioni di arresto. La presenza del popolo romanì è un pericolo. “Lo zingaro, in quanto straniero e quindi possibile nemico”, non può stare sul suolo italiano durante il conflitto. E così Agnone, Perdasdefogu, Tossicia, Campobasso, Montopoli di Sabina, Viterbo, Colle Fiorito e le isole Tremiti diventano Campi di concentramento – specialità questa non solo nazista e che gli italiani hanno già abbondantemente sperimentato in Libia negli anni precedenti – in attesa del compiersi di un destino che, puntuale, arriva nel 1943 e con l’occupazione tedesca dopo l’armistizio. Da quel momento in poi, il Campo di transito di Bolzano diventa la penultima metà del viaggio finale degli zingari italiani e stranieri rastrellati dai nazifascisti.
Nella confusione post-bellica e nella volontà diffusa di celare i disastri del fascismo e le diffuse complicità di milioni di italiani, moltissima documentazione sulla sorte degli zingari internati in Italia scompare nel gorgo degli avvenimenti. Solo dei Campi di Boiano, in provincia di Campobasso; di Tossicia, in provincia di Teramo e di Ferramonti di Tarsia, destinato quest’ultimo in prevalenza agli ebrei italiani e stranieri, si trovano dati e documenti specifici.
Su tutto il resto è sceso il pesante velo dell’oblio attorno alla storia della persecuzione italiana contro il popolo romanì, ma ciò non ci esime dal dovere del ricordo e dalla necessità morale di inginocchiarci davanti a quelle vittime senza colpa e senza storia.
Ben diversa è la situazione nel “Reich millenario”. Se lo zingaro è percepito, per i suoi usi e costumi, come un corpo pressoché estraneo alla storia europea fin dall’epoca altomedioevale, contro di lui, nei secoli, si scatenano cacce e persecuzioni che nulla hanno a che invidiare a quelle perpetrate nei riguardi delle comunità ebraiche d’Europa. Dopo una breve pausa durante l’Illuminismo, riprende con vigore quanto meno l’ostracismo e, con il II Reich (1871-1918), tutti gli zingari presenti sul suolo germanico vengono censiti e iscritti nel “Zigeuner Buch”, una sorta di lista proscrittiva per i “figli del vento”.
Stereotipi, comportamenti, chiusure culturali e problemi economici determinano l’immagine dello zingaro come quella comunque di un criminale. A Rom, Sinti, Manush e Kalè – le principali etnie di questo popolo – viene negata ogni identità sociale ed ogni scambio culturale. Non c’è dialogo fra le comunità stanziali e quelle nomadi, se non di tipo normativo e quasi sempre repressivo, con lo scopo di espellere queste presenze dal corpo sociale o di normalizzarle attraverso forzate assimilazioni.
Ancor prima dell’avvento del nazismo, nel 1929 a Monaco di Baviera, sulle ceneri del preesistente “Servizio Informazioni sugli Zingari”, nasce l’“Ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara”, che verrà poi utilizzato dai nazisti per avere un quadro delle popolazioni nomadi. Il 1938 è l’anno che determina una svolta profonda nella persecuzione contro gli zingari in Germania.
In quell’anno anzitutto appare uno studio razzista, elaborato da Tobias Portschy, dal titolo significativo “Die Zigeunerfrage” (La questione zingara), che diventa in breve il testo ideologico per eccellenza della persecuzione razziale e che individua il “rischio dell’istinto del nomadismo” come uno dei pericoli maggiori al quale è esposta la purezza della razza ariana. Nello stesso anno a Berlino viene creato l’“Istituto di ricerca sull’igiene razziale e la biologia della popolazione”, diretto dallo psichiatra e neurologo Robert Ritter, che concentra le sue attenzioni sui bambini zingari prelevandoli dagli orfanotrofi o sottraendoli alle loro famiglie.
Da questi “pseudostudi” Ritter trae la convinzione della necessità di sterilizzare forzatamente tutti i Rom e Sinti presenti sul suolo tedesco – circa 25 mila persone – al fine di bloccare la diffusione di questa “minoranza degenerata, asociale e criminale”. Infine, nel dicembre del ‘38 Himmler tratta personalmente il problema, imponendo una sorta di classificazione razziale, sul modello di quanto già si va facendo con gli ebrei, per definire i portatori di “sangue zingaro”. Poco dopo cominciano gli arresti e le deportazioni. Buchenwald, Mauthausen-Gusen e Flössenburg sono i primi Campi destinati a rinchiudere definitivamente il profondo senso di libertà che anima il popolo romanì. Viene anche costituito uno speciale reparto di Polizia per la ricerca e la persecuzione delle carovane di zingari, mentre nel quadro dell’ “Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich” si dà vita all’Ufficio IV – A4, diretto da un oscuro ufficiale di nome Adolf Eichmann, che ha il compito di organizzare la deportazione degli ebrei, degli zingari e dei polacchi – tutti “Untermenschen” e cioè “sottouomini” – nei Campi di concentramento che si vanno allestendo un po’ ovunque nel III Reich (1933-1945) e nei territori conquistati.
È nei Lager che prende ulteriore vigore la politica di sterilizzazione degli zingari. Il prof. Clauberg, un ginecologo di fama, si avvale volentieri delle donne zingare detenute a Ravensbrück per i suoi esperimenti crudeli e sadici sulla sterilizzazione femminile attraverso l’uso dei Raggi Röntgen che bruciano i tessuti interni. Sul fronte orientale, nel frattempo, le “Einsatzgruppen” fucilano in massa ebrei e zingari.
Ad Auschwitz–Birkenau si provvede poi a creare addirittura un “Zigeunerlager”, cioè un Campo specifico per gli zingari qui deportati da tutta l’Europa occupata. Il primo gruppo giunge il 26 febbraio 1943. I gruppi familiari vengono mantenuti intatti, mentre sul braccio viene tatuata la lettera Z. Nessuno smistamento, nessun appello quotidiano; possibilità per le donne di partorire, altrimenti severamente proibito per tutte le prigioniere dei Campi di concentramento; nessun obbligo di lavoro forzato, ma solo abbandono. Un totale e completo abbandono. Senza cibo e senza medicine, il “Zigeunerlager” è luogo ideale per ogni forma di epidemia e registra un tasso di mortalità ben più alto che altrove.
Il trattamento riservato agli zingari, in realtà, è però solo il frutto di un calcolo. Mantenere nei prigionieri l’illusione di una certa “tranquillità” evita l’insorgere di rivolte, particolarmente temute dalle SS per la fama di crudeltà che gli stereotipi affibbiano da sempre agli zingari. Ma non basta. Gli zingari servono, al pari degli ebrei, come cavie per gli esperimenti medici: prove antropometriche, studi sull’ereditarietà, sulla malaria, sul tifo, sulle infezioni. A tutto questo i detenuti provano a ribellarsi con una rivolta che scoppia il 16 maggio 1944 e che, dopo qualche resistenza, viene soffocata nel sangue. Il 2 agosto successivo i nazisti provvedono alla “soluzione finale della questione zingara”. Quasi tremila prigionieri, fra i quali donne, vecchi e bambini, vengono gasati e bruciati in una notte, nel “Crematorium n. 5” di Auschwitz-Birkenau.
Le cifre approssimative dell’Olocausto zingaro parlano di oltre 500 mila vittime. Tuttavia, essendo la cultura romanì prevalentemente orale, non è mai stato possibile per gli storici disegnare un quadro esatto del “Porrajmos” (“Il grande divoramento”, in lingua Sinti). Solo negli ultimi anni la ricerca scientifica ha determinato la portata di questo genocidio, divenuto quanto di più vicino possa esserci alla Shoah.
Il poeta romanì Karl Stojka così scrive sulla sparizione del suo popolo: “Noi Rom e Sinti siamo come i fiori di questa terra./ Ci possono calpestare,/ ci possono eradicare e gassare,/ ci possono bruciare,/ci possono ammazzare,/ ma come i fiori noi torniamo comunque sempre.”