Festa grande, a Trento, sabato 26 giugno, ricorrenza di S. Vigilio, patrono della città e della diocesi. Lo è da più di 1600 anni, dal giorno in cui morì senza tanto martirio e fu sepolto in pompa magna fuori le mura della città romana. Oggi la sua festa patronale è seguita da una minoranza. Del resto lo stesso nome di Vigilio, nella diocesi che conta più di mezzo milione di abitanti, lo portano in pochi: 154 persone. Altre 32 si chiamano Virgilio. Anche il nome del patrono in faccende di contagi, un tempo invocato come taumaturgo, vale a dire S. Rocco, non ha miglior fortuna: si chiamano così soltanto in 181 e, per la maggior parte, hanno origini nel sud Italia. Il dato è certo poiché è stato ricavato dall’anagrafe sanitaria provinciale. Oggi, più che S. Rocco si invocano Pfizer, Moderna; un po’ meno AstraZeneca. Ad ogni modo, vediamo di approfondire l’argomento delle “balle vigiliane”.
Facciano un po’ di controinformazione e diciamolo una volta per tutte: il “martire” S. Vigilio, che la Chiesa di Trento celebra il 26 giugno quale patrono della diocesi, non è mai stato assassinato dai Redenèri. È morto di morte naturale. Nel suo letto, probabilmente. E le donne che lo uccisero, tirandogli le “sgàlmere” (gli zoccoli di legno), altro non sono che frutto di fantasia. Come il toponimo Mortaso (“Tàs che ‘l mor”, taci che muore), luogo del supposto martirio dove, anche qui per tradizione, non lieviterebbe più il pane poiché i rendenèri, finite le “munizioni” avrebbero tirato addosso al vescovo Vigilio grosse pagnotte di pane raffermo. Balle, ben congegnate ma pur sempre fandonie.
Iginio Rogger (1919-2014), insigne studioso della Chiesa Tridentina, non aveva dubbi in proposito. Diceva a chi scrive: “Se lo immagina lei un vescovo ammazzato in modo barbaro e della cui morte non si faccia menzione a livello della Chiesa universale”? Tre anni prima del leggendario martirio (avvenuto, per tradizione, il 26 giugno del 400 dopo Cristo), in Anaunia (val di Non) erano stati uccisi e bruciati su un rogo (29 maggio 397) tre missionari “cappàdoci” (territorio della Turchia), tre extracomunitari si direbbe oggi, inviati dal vescovo di Milano, Ambrogio (nato a Treviri, Germania, nel 340 circa), a dare una mano all’amico vescovo Vigilio. Del loro martirio esiste la relazione scritta da Vigilio a S. Simpliciano (320 ca.-401 ca.), successore di Ambrogio il quale era morto il 4 aprile 397. E di quel triplice omicidio c’è menzione perfino in una omelia di Agostino di Ippona.
Della fine di Vigilio (355-400) c’è solo un tardo racconto, elaborato due secoli dopo la morte, che parla di martirio, ma non convince gli studiosi. Così come è una balla colossale l’attribuzione a S. Massenza del titolo di “madre di Vigilio”. Tutto nasce da una scritta, su un antico messale del Duomo di Trento (del XIII secolo). Accanto al nome di S. Massenza qualcuno vergò “Vigilia”, per dire che il prete che quel giorno diceva messa doveva indossare i paramenti sacri della vigilia della festa. Da lì interpretare quella parola in “mater sancti Vigilii” fu un attimo. E così Massenza “vergine e martire” è indicata quale “madre” di S. Vigilio. Martire magari, ma vergine, avendo avuto un figlio, pare un po’ improbabile.
Non contenti, gli agiografi medievali attribuirono a Vigilio due fratelli: Magurio e Claudiano. Altri non furono che due vescovi successori dello stesso. Il quale era arrivato da queste parti quale cittadino romano ed era stato eletto alla cattedra vescovile direttamente dal popolo, come accadeva nei primi tempi del cristianesimo. Morto dopo 12 anni di governo episcopale, Vigilio, terzo vescovo di Trento, fu sepolto nella piccola chiesa che aveva fatto fabbricare fuori le mura della città, dove oggi insiste la cattedrale che porta il suo nome.
A tale proposito: nel Trentino erano 24 le chiese dedicate al patrono della diocesi. Alcune in Alto Adige (segnatamente, nella parte della provincia di Bolzano che fino al 1964 fu territorio soggetto alla cattedra di S. Vigilio), altre ancora nelle regioni del nord Italia. Oggi talune chiese sono insigni luoghi di culto, ritenute santuari, alcune cappelle invece sono scomparse. Varie chiese, dedicate a San Vigilio, si trovano all’estremità della diocesi di Trento, quasi a segnare i confini dai quattro punti cardinali: Ossana, Moena, Raossi di Vallarsa, Nago, Molina di Ledro.
Dal sacro al profano. Tra le “balle” spacciate in questi ultimi decenni e portate quale dessert sulla tavola imbandita delle cosiddette “feste vigiliane”, la disfida dei Ciusi e dei Gobj è tra le più colossali. Tutto nasce da un opuscolo, stampato nel 1858, come “memoria del consigliere comunale Tito de’ Bassetti, socio di più Accademie” sulla “Antica mascherata trentina” detta “La polenta de Ciusi e Gobj”. Scriveva Bassetti che “si tratta di uno spettacolo carnovalesco”. Dunque, una mascherata di carnevale. E già qui, con le feste vigiliane c’entra nulla. Il nostro la faceva risalire ai secoli dell’alto medioevo come “un fatto successo sotto il regno dei Goti […] ma non sarebbe fuor di luogo il crederla dei tempi Etruschi”. Una disfida della polenta fra Ciusi (rappresentanti di Feltre) e i Gobj (ovvero gli abitanti di Trento). Sennonché la polenta si fa con l’acqua e la farina di mais. Orbene, anche i bambini sanno che il mais fu introdotto in Europa dopo il 1492 e la scoperta delle “Indie” da parte di Cristoforo Colombo. La ricetta della polenta al tempo dei Goti (che invasero i territori dell’impero romano nel III secolo d. C.) resta un mistero che nemmeno le Vigiliane “inventate” da Guido Malossini riusciranno a dipanare. Ma si sa: balla più, balla meno, così va il mondo.
© 2021 Il Trentino Nuovo