Scampato alla strage della “Spagnola” l’epidemia che sconvolse il mondo fra il 1918 e il 1921 (da 40 a 100 milioni di morti); sopravvissuto all’atomica su Nagasaki del 9 agosto 1945 (60 mila morti); scampato a un tifone; superato brillantemente il secolo di vita, il 19 giugno 2021 Mario Antolini “Musòn” compie 101 anni. E li festeggia nella mansarda di casa sua, a Tione, dove ogni giorno si mette al computer per tenersi in contatto con il mondo. Lo fa attraverso i social network, gli articoli e le riflessioni sui giornali, le e-mail inviate agli amici.
Dei 15 giornalisti italiani che hanno oltrepassato i cento anni, il nostro non è il decano ma, probabilmente, è il più brillante e sveglio. Per il centesimo compleanno l’Ordine regionale dei Giornalisti gli ha attribuito la spilla con la penna d’oro. In questi giorni gli auguri fioccano da ogni angolo del pianeta. Perfino dal Giappone dove è vissuto per oltre sette anni, gli anni cruciali della seconda guerra mondiale. Ha ricordato su Facebook: “Tokyo, 8 dicembre 1941: da un anno mi trovavo in Giappone, isolati dal resto del mondo perché già il 1° settembre 1939 la Germania aveva fatto scattare la scintilla di guerra e perfino l’Italia, nel giugno 1940 vi si era infilata. Nulla faceva presagire che anche il Giappone vi avrebbe preso parte, ma in quel fatidico giorno ecco l’annuncio dell’attacco dei giapponesi a Pearl Harbor e l’annuncio dell’entrata in guerra da parte del Paese del Sol Levante”.
Racconta ancora Mario Antolini: “Furono cinque anni di rigore e di austerità ma in perfetto ordine e tutto filava via dritto (e in taciuta) sofferenza attraverso la scarsità di notizie che filtravano col contagocce dalla stampa in mano ai militari. Tuttavia, la vita all’interno del Paese non subiva scosse di sorta. Anche il razionamento alimentare, sempre in diminuzione di anno in anno, perveniva regolarmente ed equamente anche all’ultimo dei cittadini. Verso la fine del conflitto si era giunti ai limiti della fame, soprattutto nelle città, specie da quando, col 1943, iniziarono i bombardamenti americani a tappeto: prima delle due atomiche. Rimase famoso quello del 10 marzo 1943 su Tokyo con oltre 300 mila morti in una sola notte. Nella mia piccola oasi in una città del sud fui fortunato a non aver mai sofferto la fame, pur nella austerità di vita. Anche durante il mio internamento non fui mai vittima di angherie né giunsi allo strazio della fame. Di ciò che fu la guerra, nel Pacifico, in Oriente e in Occidente, venni a conoscerlo soltanto dopo il mio rientro in Italia, nel 1947. Durante il periodo bellico ne fui costantemente all’oscuro, persino dell’esplosione delle due atomiche. Così come delle vicende in Europa e nel resto del mondo venni a conoscenza soltanto dopo il mio inserimento in Italia, dagli anni Cinquanta in poi”.
Tornato a casa dal Giappone, dopo sette anni di “buio” totale, senza alcuna notizia di ciò che accadeva nel mondo, Mario Antolini si è gettato a capofitto nella formazione (insegnante, laureato in lingue orientali a Napoli) e nell’informazione (corrispondente dei giornali locali e pure del “Corriere della Sera” dalle valli Giudicarie e dalla val Rendena). Legatissimo alla sua terra, alla quale ha dedicato una decina di libri e ne ha curati un centinaio; ha fondato quasi tutti i bollettini comunali di quella porzione di Trentino occidentale. Con Basilio Mosca e altri otto fu tra i fondatori del “Centro Studi Judicaria”, avviato nel 1982, per “saldare e salvare l’autonomia con la cultura”. Afferma: “L’autonomia sen noi, col nos dialèt”.
La passione per la carta stampata viene da lontano, dal nonno Basilio e dal papà Alfredo che facevano i tipografi nella stamperia di Tione, comprata nel 1880. Va probabilmente cercata qui la propensione del nostro all’uso del computer.
“Credo che tutto sia dipeso dall’aver avuto la ventura di partire, giovanissimo, con tre anni di Scuola di Arte Grafica (Milano 1932-35) per cui la scrittura e la stampa mi sono entrate nelle vene. A 27 anni l’incontro con Aldo Gorfer [scomparso 25 anni fa] e subito a far parte del mondo della comunicazione, sempre con la penna in mano. Appena possibile mi sono trovato sommerso dalla dattilografia e, quando è arrivato sul mercato, il passaggio all’uso del computer è stata la cosa più naturale del mondo. Anche se avevo ottant’anni. Per quel compleanno i miei nipoti mi hanno regalato una stampante laser. L’anno scorso, per i 100 anni, i miei figli mi hanno fornito di un nuovo computer perché l’altro era troppo vecchio e aveva fatto cilecca”.
Nel resoconto dei giorni che diventano storia, qual è il bilancio di questa straordinaria avventura? “A 96 anni ho scritto un’autobiografia a ricordo del mio lungo cammino. Posso dire che sono più che soddisfatto, e grato a mia moglie, per averni dato una famiglia unita e ben amalgamata ad ampio raggio. Una grande soddisfazione; una benedizione di Dio”.
A 15 anni disse che voleva farsi missionario. Il papà replicò con un “fa quel che te voi”. Finito il ginnasio, a Ivrea, domandò ai Salesiani di mandarlo in Giappone. Salpato da Venezia, arrivò a destinazione il 21 novembre 1939. In Europa era già scoppiata la seconda guerra mondiale. A Tokio, Mario Antolini frequentò i tre anni di liceo, naturalmente in lingua giapponese. Nel mese di aprile del 1945 tutti gli stranieri presenti in Giappone furono smistati in vari campi di concentramento: “Io e i miei compagni fummo mandati in una valle stretta dove rimanemmo confinati fino alla fine di settembre del 1945”. Lo scoppio della bomba atomica su Nagasaki, settanta chilometri lontano, non lo avvertì. Seppe qualche giorno dopo dei sessantamila morti e della resa dell’Imperatore giapponese agli Americani.
Scampato all’atomica, liberato dal campo di concentramento e tornato nella comunità Salesiana, Mario Antolini scampò a un altro disastro. Un tifone “el n’ha batù giò el collegio”. L’ultima lettera della famiglia gli era pervenuta nel giugno del 1940. Poi, fino al febbraio del 1946, nessun messaggio. Solo allora apprese che due fratelli erano stati internati nei lager in Germania. Tornò a Tione alla fine di maggio del 1947. Aveva indosso il puro vestito e in tasca il solo diploma di quinta elementare. Fu un ritorno inatteso. Suo papà, sbrigativo, gli disse solo: “Dimóstreme chi che no te se’ ‘n àsen”. Arrivato il mercoledì, il venerdì mattina alle 8, indossata la “telàra” da operaio, “ero già en tipografia a laoràr”. Conseguì il diploma delle Magistrali (1949) da privatista. Poiché aveva esercitato per anni la lingua giapponese e praticava poco l’italiano, promise alla commissione d’esame che non avrebbe mai fatto l’insegnante. Si laureò a Napoli (1953) in lingue orientali. Nel 1955 fece il concorso magistrale e lo vinse. Fu costretto da sua moglie a rimangiarsi la promessa. Gina Tessadri, che aveva sposato nel 1956, gli disse: “Se te metti su famiglia bisognerà che pensi anche al 27”. Fu così che Mario Antolini diventò insegnante. Maestro di scuola nelle “sue” Giudicarie. Gina gli ha dato due figli: Flavio e Sabrina. È morta nel 2010.
Cento anni e non sono stati una passeggiata. L’amato computer lo tiene collegato col mondo. Manda lettere, riceve messaggi, scrive appunti, elabora saggi. A chi gli rammenta l’eccezionale produzione replica: “Ho fatto solo quello che si doveva fare, come tutti”. “Non riesco ancora a rendermi conto della corsa dei giorni. Certo, mi meraviglio che il Padreterno, nonostante due gravi malattie in tarda età, continui a lasciarmi in buona salute e con la mente lucida, tanto che non ho ancora interrotto il quotidiano impegno con la tastiera”. Ha già battuto molti record. L’augurio è che possa diventare il più anziano d’Italia.
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1 commento
Ho sempre apprezzato quanto detto e scritto da Alberto F., in particolare in tempi più recenti per il suo voler tenere d’occhio fatti e personaggi “trentini” che, nella fretta di tutti i giorni, sarebbero forse destinati a perdersi nella memoria. Grazie.