“L’esperienza del limite. Verso una società post mortale?” è il titolo di un articolo di Luciano Manicardi su “La rivista del clero italiano”, n. 7/8, 2020. Marcello Farina, prete e filosofo, si interroga sui “nervi scoperti” dell’esistenza, sul “limite, fragilità e vulnerabilità” catapultati sullo scenario della cronaca dalla precarietà della vita e dell’esistenza in tempo di pandemia. È una riflessione alta, da “libero pensatore”, che vi proponiamo a “piccole dosi”, vale a dire a puntate, cominciando come si conviene con una introduzione a largo spettro.
“La vita è precaria, “flottant”, scriveva Paul Ricoeur (1913-2005) in una delle sue opere più importanti, “Finitudine e colpa” del 1960. “Ci si trova in vita prima di ogni esercizio di volontà. In una certa necessità di esistere. Ma la vita poi sfugge, si sottrae al controllo: non si regna su di essa”.
A metà del cosiddetto “secolo breve”, il Novecento, il grande filosofo francese metteva in evidenza, con grande lucidità, uno dei temi più indagati e più discussi di tutti gli ultimi cento e più anni, dalla prima guerra mondiale all’odierna pandemia: la precarietà della vita, quella umana evidentemente, ma anche quella del cosmo e della terra. Il “limite”, la “fragilità”, la “vulnerabilità” (e mille altri vocaboli, utilizzati più o meno come sinonimi), sono stati le parole più usate e ripetute dalle donne e dagli uomini di questo periodo di storia dell’umanità fino ai nostri giorni.
In realtà, esse non erano parole “nuove”, perché appartenevano, se così si può dire, già alla millenaria tradizione culturale dell’Occidente, sia a quella classica, greco-romana, sia a quella ebraico-cristiana, costituendone la “cifra” delle più diverse situazioni personali, sociali, ma anche materiali, delle donne e degli uomini loro “custodi”, a tal punto da essere impiegati nei più diversi contesti e nelle più variegate discipline, dalla filosofia alla scienza, dall’antropologia alla fisica, fino allo sviluppo della tecnica contemporanea.
Achille, l’eroe per antonomasia, non si presentava vulnerabile con il suo tallone, segno della propria fragilità? E il Cristo non è stato colui che, con i segni della passione, ha espresso la solidarietà e la compassione per le donne e gli uomini di ogni tempo? Il limite, la fragilità, la vulnerabilità sono stati compagni di viaggio di tutte le generazioni. Tutte hanno fatto esperienza dell’incompiutezza dei loro traguardi, di volta in volta raggiunti, in un mondo chi è stato e che è in un incessante divenire fatto di eventi, di processi che subiscono continue trasformazioni.
Ma l’ultimo secolo, il Novecento, il “nostro secolo”, se così si può dire per molti di noi, ha “esasperato” la percezione del significato di quelle parole in maniera talora parossistica, insistente, estensiva. Vale la pena di ricordare che esso si apriva ereditando le parole di Federico Nietzsche, nella “Gaia scienza”,il quale spiegava che “la morte di Dio” portava con sé un disorientamento generale nella comprensione della vita e della storia. “Dov’è che ci muoviamo noi?”, si chiedeva il filosofo. “Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina?”. “Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli!” (La gaia scienza, libro terzo, § 125).
L’esperienza della prima guerra mondiale aveva reso “profetiche” le parole del filosofo del “nichilismo” raccolte e trasformate poi da Martin Heidegger (1889-1976) in un’acuta e approfondita analisi dell’esistenza umana in generale. Nella sua “analitica esistenziale” dispiegata nella sua opera più famosa, Essere e tempo (Sein und Zeit), del 1927, Heidegger definisce l’umano come “Esserci/Dasein”, realtà che non è mai data stabilmente, ma che è sempre in gioco, una “possibilità”, che può conquistarsi o perdersi, di scegliere tra l’esistenza autentica e l’esistenza inautentica. La prima come è noto, si esprime come “l’essere per la morte” (“Sein zum Tode”), una possibilità da assumersi con una decisione anticipatrice da parte di ciascuno; la seconda, invece, si realizza (si disperde) nelle chiacchiere che si regola sul “si dice-man sagt” della quotidianità; sulla curiosità, che cerca continuamente la distrazione; e sull’equivoco, che è un modo per disperdersi dentro l’insulsaggine della ripetitività.
Lo stesso Martin Heidegger che afferma: “Nessuna epoca ha saputo conquistare tante e così svariate conoscenze sull’uomo come la nostra (…) Eppure nessuna epoca come la nostra ha conosciuto così poco l’uomo. In nessuna epoca l’uomo è diventato così problematico come nella nostra”. E gli fa eco un altro interessante pensatore dei primi decenni del Novecento, Max Scheler (1874-1928) che commenta: “Nella storia di oltre diecimila anni, questa è la prima volta in cui l’uomo è diventato per sé radicalmente e universalmente problematico. L’uomo non sa più chi gli egli sia e si rende conto di non saperlo più. Soltanto facendo tabula rasa di tutte le tradizioni e contemplando con estremo stupore quell’essere che si chiama uomo, si potrà nuovamente giungere a giudizi fondati”.
A sua volta Martin Buber (1878-1965), anch’egli instancabile indagatore della condizione umana, scrive: “Io distinguo nella storia del pensiero umano le epoche in cui l’uomo possiede una casa dall’epoca in cui egli ne è privo. Nelle prime egli abita il mondo come se abitasse in una casa, nelle altre è come se vivesse in aperta campagna e non possedesse neppure i quattro picchetti per impiantare una tenda. L’uomo di oggi è senza casa”.
E in un altro delizioso libretto, intitolato “Il cammino dell’uomo” (1990), Buber riporta un divertente aneddoto antico: “Rabbi Hanoch raccontava: c’era una volta uno stolto così insensato che era chiamato il Golem (stupido, senza intelligenza). Quando si alzava al mattino gli riusciva difficile ritrovare gli abiti che, alla sera, al solo pensiero, spesso aveva paura di andare a dormire. Finalmente una sera si fece coraggio, impugnò una matita e un foglietto e, spogliandosi, annotò dove posava ogni capo di vestiario. Il mattino seguente si alzò tutto contento e prese la sua lista: il berretto, là, e se lo mise in testa; i pantaloni, lì, e se li infilo; e così via, fino che ebbe indossato tutto. “Sì, ma io, dove sono?” si chiese all’improvviso, in preda all’ansia. “Dove sono rimasto?”. Invano si cercò e ricercò: non riusciva a ritrovarsi”. “Così capita anche a noi”, commenta Buber.
Accanto poi alla filosofia, è la letteratura, nella sua straordinaria fioritura dopo la Grande guerra, che si prende cura, in innumerevoli opere, di descrivere “l’umano” nei suoi “limiti”, nella sua “fragilità” e “vulnerabilità”. Dall’Ulisse di James Joyce, a La condizione umana di André Malraux; da La nausea di J. P. Sartre a La noia di Alberto Moravia; da “Il Piccolo Principe” di Saint-Exupery al Diario di Etty Hillesum; da “La Metamorfosi” di Franz Kafka a “Arcipelago Gulag” di Alexander Jsaevič Solzenicyn, e dalle opere di grandi donne e di grandi uomini, in Europa e nel mondo, che qui è impossibile ricordare singolarmente, si è levata, per tutto il Novecento, la voce sulla “condizione umana”, di cui è possibile ricordare, con due citazioni “rappresentative”, quella di Margherite Yourcenar (1903-1987), che nel suo romanzo “Memorie di Adriano” fa dire all’imperatore romano “La vita è, per ogni uomo, una sconfitta”; e quella ribadita più volte in opere diverse, di E. M. Cioran (1911-1995), che scrive: “Polvere invaghita di fantasmi è l’uomo”, ribadendo poiché “amo tutto, eccetto l’uomo. Quando penso a lui vedo rosso”. Per lui è Don Chisciotte l’immagine più veritiera dell’umano.
Nella seconda metà del Novecento, poi, accanto alla indagine filosofica e alla scrittura letteraria, è l’indagine sociologica che si concentra in maniera diffusa e determinata su “la condizione umana”, in un contesto che si è andato via via arricchendo anche di un altro capo di studio: quello ecologico, legando ormai indissolubilmente la sorte dell’uomo e della donna a quella del cosmo e della terra, di cui, pure, si è riconosciuta l’urgenza di mettere in luce i limiti, la fragilità e la vulnerabilità.
L’elenco, del tutto lacunoso e parziale, ci fa ricordare Edgar Morin (1921) e la sua opera “La sfida della complessità” (2011); Zygmund Bauman (1925-2017) con “La società dell’incertezza” (1999) e “Modernità liquida” (2002); Niklas Luhman (1927-1998) e la sua “Sociologia del rischio” (1991) e “Osservazioni sul moderno” (1995); Antony Giddens (1938) e le sue “Identità e società moderna” (1990) e “Il mondo che cambia” (1999); Ulrich Beck (1944-2015) e le sue “Società del rischio” (2000) e “Sull’orlo di una crisi” (2004).
Nella sua incompletezza, la memoria di questi autori e delle loro opere, così come quella precedente degli scrittori, cui andrebbe aggiunta anche quella degli artisti del cosiddetto “modernismo”, evidenzia la vastità sia culturale, sia “geografica” della ricerca, che comprende tutto il Novecento, sui temi evocati dalle tre parole (limite, fragilità, vulnerabilità) citate già più volte in questa introduzione. Mi permetto, però, di ricordare due opere recentissime di grande fascino, che arricchiscono anche lessicalmente la ricerca stessa. Esse sono: “La società della stanchezza” (2012) del filosofo coreano Byung Chul Han (1959) e il “Saggio sulla stanchezza” (2019) dell’austriaco Peter Handke (1942).
1 – continua