“Sii una signora, hanno detto. Non fare la facile. Non fare la puttana. Sii modesta. Sii femminile. Sii una taglia zero. Sii una taglia doppio zero. Sii niente. Sii meno di niente. Non parlare troppo. Non occupare spazio. Non sederti così. Non dire parolacce. Sii passiva. Sii obbediente. Sopporta il dolore. Sii piacevole. Non lamentarti.”
“Sii una signora, hanno detto. Non essere stuprata. Proteggiti. Non bere troppo. Non camminare da sola. Non uscire troppo tardi. Non vestirti così. Cammina dove è ben illuminato. Non sembrare facile. Non attirare l’attenzione. Non uscire di notte. Non fidarti di nessuno. Sii una donna”.
Questi, sono solo alcuni passaggi del monologo scritto dalla giovanissima poetessa Camille Rainville. Quando a recitarlo, un anno fa, fu l’attrice americana Cynthia Nixon (la “Miranda” di Sex and the City) in brevissimo tempo divenne virale. Moltissimi i “mi piace”, ma poi all’abbuffata della condivisione sociale non corrisponde mai la crudezza della realtà, almeno nel nostro Paese.
Paese dove i luoghi comuni si sprecano e la resistenza di un certo patriarcato o modello maschilista continua a resistere. Ne è zeppa la vicenda dei quattro rampolli di famiglie bene di Genova che una sera in Sardegna si sono “divertiti” con due giovani ragazze.
Oggi sono indagati per stupro su una di loro. Non ne parlerei se la vicenda non avesse assunto i toni della sistematica demolizione della vittima.
Dunque vediamo di cosa è “colpevole” la ragazza vittima di stupro. Andava alla festa (se l’è cercata), ha bevuto (quindi era d’accordo), il giorno dopo è andata in spiaggia (dunque non stava male). Finale: non è credibile. È solo una poco di buono che vuole rovinare la vita a giovanotti promettenti e alle loro famiglie.
Posso scrivere che sono indignata?
Mi sembra un film già visto dove a essere sotto processo non sono i carnefici, ma la vittima. Diciamo subito – come è giusto che sia – che spetterà ai giudici decidere colpevolezza e innocenza, ma diciamo anche che a noi spetta il compito di capire il momento, il “sentire” della società.
E le domande sono parecchie. Davvero una violenza come lo stupro si può ricondurre a una serata brava? Un banale accidente dovuto all’alcol? Siamo sicuri che tutto si riduca a un eccesso di divertimento?
E davvero crediamo che tutte le donne si sarebbero fiondate subito a denunciare?
Ci sono donne che quel coraggio non lo trovano mai. Che temono di non essere credute, che si vergognano, che vivono perenni e irrisolti sensi di colpa, che hanno bisogno di tempo per guarire un corpo violato. Alcune non ci riescono in una vita intera.
In quanto all’altro luogo comune per cui lei era “brilla”, l’alterazione che sia droga o alcol viene ritenuta dalla legge (giustamente) un’aggravante della violenza non il contrario. Una condizione di “inferiorità psichica e fisica” che non permette di esprimere un consenso cosciente.
Però alla fine la radice di tutto sta che l’essenza dello stupro (mi rifiuto di definirlo “cultura”) trova la sua giustificazione e il suo permanere nel colpevolizzare le vittime.
Un perverso gioco di rovesciamento di ruoli per il quale tante tantissime donne non hanno mai avuto il coraggio di denunciare.
A un processo di qualche anno fa. Testuali parole: l’uomo, il predatore: “Mi creda giudice, è stata lei a provocarmi, lei che ha bevuto come un’ossessa, lei con quel corpo così… così bello, il vestito troppo corto e quegli occhi…. uno sguardo da provocatrice e se ha anche ho dovuto sforzarla, credetemi lei si è divertita.”
1 commento
Brava Pat, condivido il tuo parere sulla “bravata” di due stupidi adolescenti e sulla mentalità maschilista italiana che purtroppo è ancora fin troppo radicata