Eccomi a riprendere, in questa domenica 9 maggio 2021, il discorso in questo inquieto periodo durante il quale (e che mai è durato così a lungo) non si sa più cosa pensare, dove guardare, chi ascoltare e con chi stare. Il mio rammarico e le mie perplessità si riferiscono principalmente alle numerose persone alle quali nessuno pensa mai e che vengono lasciate da sole, allo sbando. Senza che nessuno corra in loro aiuto per porgere una valida mano affinché riescano ad uscire ed a districarsi tra i fili spinati (reticolati) di un disordinato accavallarsi di un’informazione manovrata da sovrastanti e sconosciuti interessi economici, politici e sociali.
Penso di non esagerare nel dire che ci si trova da soli, continuamente sballottati da informazioni quasi sempre contraddittorie, con una gran massa di “comunicatori” e cosiddetti “commentatori” che parlano per conto proprio, disseminando e diffondendo informazioni (chiacchiere!) più personalizzate che oggettivamente rispondenti a ciò che si è detto o che è avvenuto. Nel contempo, però, mi viene da chiedermi quante persone si trovino adeguatamente preparate ad affrontare queste ondate oceaniche che tutto travolgono e tutto lasciano disastrato! Quello che più mi impressiona, tuttavia, è il constatare che i considerati “informatori” parlano di tutto ciò che è LONTANO, che non mi tocca e non ci tocca e che impedisce di diventarne partecipi di quanto si dice o avviene, neppure indirettamente. La gente, quasi passivamente, è messa nella condizione di venirne a conoscenza (attraverso i mass media a pagamento) e a rimanerne oppressa dai riflessi psicologici emotivi e, quindi, conservati in memoria.
Nel contempo, mentre sembra che io venga informato di tutto un po’, mi accorgo che mi vengono a mancare le informazioni che più interesserebbero, ossia quelle che riguardano la porta accanto, la gente con cui vivo, il pezzetto di territorio sul quale mi trovo a vivere. Mi sento davvero un “chiuso in casa” – anche in senso informativo – poiché non so che cosa è accaduto o che sta succedendo alle persone che conosco, che cosa stia avvenendo e che cosa possa direttamente interessarmi e coinvolgermi, come mi debba comportare per adeguarmi a ciò che accade conseguentemente alla pandemia in atto, ma attorno a me non (solo) in altre parti del mondo.
Mi sento accerchiato da informazioni a valanga che mi lasciano inebetito e confuso e del tutto incapace di far fronte anche alle necessità più impellenti di tipo personale e sociale, ma attorno a me. Non è, forse, proprio questa la situazione in cui si trova la maggioranza delle persone? Tutti sanno che è caduto un ponte in Messico (senza poter far nulla) e io non so se è aperto ed è a mia disposizione il ristorante vicino a casa e che cosa sta avvenendo in tutti i paesi della mia vallata. I mezzi di comunicazione di massa girano al largo e non si curano di me, della mia gente, delle cose che mi interessano e di coloro che vivono con me. Per i mass media io e la mia gente non esistiamo, ma si pretende che io viva interessandomi di tutto quello che interessa gli altri. Mi sento informato di tutto ciò che avviene nel mondo, ma mi si lascia privo delle notizie cose di casa mia. Un vero assurdo.
Che strani pensieri in questo pomeriggio domenicale trascorso da solo in mansarda, serenamente tranquillo a battere alla tastiera. Davvero pensieri al vento, o forse no. E allora vi propongo una mia riflessione in poesia, nel dialetto giudicariese della “Busa”, con la doverosa traduzione (a seguire) in lingua italiana.
Sentìrse arént…
Él fàrse sentìr arént
nó l’è èser sentàdi giù
sa la stèsa banchèta
sa na caréga ’nsèma.
L’è èserghe quàn én pòpo,
na pòpa, o n’òm o na dòna
i gà bisògn de mi e i mé ciàma
per avérghe ’n bèl butó’
per nàr enànç ànca sàl dùr
o de na caréza sàl só dolór…
Fàrse sentìr che se ghé sé
l’è ànca gatàrse én mèz a gént
che la sàpia che tè ghé sé
e cosìta quèi che i gà bisògn de ti
i vègn a savér che ti tè ghe sé
e i pól cercàrte, gatàrte e domandàrte
quèl che èi i vorìa da ti.
Podér cercàrte e podér gatàrte
l’è amó pù bèl l’èser sól arént
magàri senza fàr sentìr che se ghe sé!
Quàn strolicàr…
… e nó èser bó de fàrme capìr!
Sentirsi accanto. – Il farsi sentire accanto / non è essere seduti / sulla stessa panchina / o insieme su una sedia. / È esserci quando un bambino, una bambina o un uomo o una donna / hanno bisogno di me e mi chiama / per avere una buona spinta / per proseguire a vivere anche sul duro / o di una carezza sul suo dolore… / Farsi sentire che vi si è / è il trovarsi fra gente / che sappia che ci sei / e così coloro che hanno bisogno di te / vengono a sapere che tu ci sei / e possono cercarti, trovarti e chiederti / quello che vorrebbero da te. / Poter cercarti e poterti trovare / è qualcosa di più e meglio che l’essere accanto / magari senza farsi sentire che ci sei! / Quanto arrabattarsi… / … e non essere capace di farmi intendere! (Mario Antolini Musón)