Tre lustri sono trascorsi da quel 2006 nel quale si realizzò per la prima volta la staffetta tra i presidenti di Trentino e Alto Adige alla guida della Regione. Allora fu Lorenzo Dellai a ricevere il testimone dalle mani di Luis Durnwalder e la cosa si ripeté nella legislatura successiva. Fu poi il turno di Alberto Pacher, seguito, con un’inversione dell’ordine delle precedenze da Ugo Rossi. Arno Kompatscher, che ricopre l’incarico ormai dal giugno 2016 passerà le consegne, tra qualche settimana, al collega trentino Maurizio Fugatti.
Credo che non vi sia stata una sola di queste operazioni di ricambio istituzionale, che coincidono in genere anche con altri cambi della guardia in virtù del principio dell’alternanza etnica, che non sia stata accompagnata da accorati appelli per il rilancio di un ruolo politico della Regione Trentino-Alto Adige, vista come l’indispensabile cornice per valorizzare, omogeneizzare e proiettare verso traguardi politici ancora più luminosi le due autonomie provinciali.
È un fatto, credo inconfutabile, che tutti questi appelli sono rimasti sulla carta dei resoconti consiliari o sono approdati al massimo su qualche pagina di giornale.
È un altro fatto, anch’esso, mi pare, poco contestabile, che queste invocazioni trovano la loro origine nella sola provincia di Trento, da dove si alzano con vigore per andare a spegnersi, poche decine di chilometri più a nord, contro un muro di marcata indifferenza, se non a volte di netta ostilità, che si erge dalle parti della chiusa di Salorno.
Lo stesso, mi pare, stia avvenendo mentre si approssima una nuova “staffetta”. Da Trento partono ancora una volta ragionate disquisizioni sull’indispensabilità di una riscoperta della Regione come luogo ideale dove realizzare quel concerto di idee e di propositi tra le due province autonome che viene considerato assolutamente necessario.
Il fatto è, però, che le cose del mondo paiono andare in una direzione completamente opposta. All’origine di questa divaricazione tra pensiero e azione c’è un equivoco, volutamente mai chiarito, che riguarda le ragioni stesse che hanno portato a Bolzano e Trento a concordare l’alternanza dei propri due presidenti di Provincia alla guida dell’istituzione regionale. Dal Trentino la cosa è sempre stata vista come il primo passo verso un rilancio politico in grande stile della Regione. Non si è saputo o forse non si è voluto capire che Bolzano vedeva la cosa in modo diametralmente opposto e che la famosa staffetta fu approvata solo perché era il modo più sicuro per eliminare definitivamente dal tavolo delle decisioni politiche, delle trattative con Roma e Bruxelles, un terzo interlocutore. Da una ventina d’anni, dunque, la Regione ha cessato di avere un proprio rappresentante diverso da quello delle due province. Questo si voleva e questo si è ottenuto.
Quanto al destino futuro dell’istituzione regionale, alla Südtiroler Volkspartei occorre riconoscere coerenza e pragmatismo al tempo stesso. È dal “los von Trient” nel 1957 che ne chiede l’abolizione e non ha mai cambiato idea, ma al tempo stesso ha scelto non impuntarsi sulla questione di principio, quando ha capito che insistere per la creazione di due regioni autonome a Trento e Bolzano avrebbe significato, probabilmente, mandare all’aria l’intero accordo sulla seconda autonomia. Quell’intesa che, ricordiamolo, proprio in questi mesi, cinquant’anni fa, completava il suo doppio faticoso passaggio nelle aule parlamentari, per giungere a compimento con la nascita, all’inizio del 1972, del nuovo Statuto.
Rassegnata alla necessità di tenere in piedi la Regione, la SVP ha preferito svuotarla progressivamente, legislatura dopo legislatura, di tutte o quasi tutte le competenze residue. Con la staffetta le ha sottratto anche un presidente. Basterebbe rileggere gli atti della Convenzione, con la quale, prima del fallimento della riforma Renzi, si ipotizzavano a Bolzano gli scenari per una revisione dell’istituzione autonomistica, per capire tuttavia che l’abolizione della Regione resta un obiettivo imprescindibile a lungo termine per gli uomini della Stella Alpina. Non lo invocano ad ogni seduta del Consiglio, come fanno i rappresentanti dei partitini secessionisti della destra sudtirolese, ma questo non significa che vi abbiano rinunciato. Quanto al resto dello schieramento politico altoatesino, l’atteggiamento su questo tema, con la parziale episodica eccezione di Fratelli d’Italia, è improntato ad una glaciale indifferenza, se non peggio.
È per questo che gli editoriali e commenti comparsi in queste settimane su diversi organi di stampa trentini e i discorsi politici che, senza alcun dubbio, verranno fatti a giugno, quando l’alternanza tra i due presidenti verrà sancita nell’aula del Consiglio Regionale, paiono un po’ come parole dette ad un interlocutore affetto da voluta sordità.
Tra l’altro il tema viene a cadere nel momento forse più basso della storia più recente per quel che attiene ai rapporti di collaborazione tra le due province. Perfino su un tema, quello del rinnovo della concessione della A22, il cui carattere squisitamente regionale risale sino alle origini dell’impresa autostradale, le due realtà paiono muoversi in modo assolutamente distante, se non addirittura l’una in opposizione dell’altra.
La pandemia, tra i suoi mille altri effetti sulla nostra realtà, ha consegnato poi definitivamente all’opinione pubblica nazionale la consapevolezza che Trento e Bolzano sono due realtà diverse, nei grafici sull’andamento del virus, come in tante altre cose.
Non che questo significhi che per la Regione sia per suonare il “de profundis”. Cancellarne i resti implica un lavoro di riscrittura della Costituzione tutt’altro che semplice e non privo di pericoli, in un momento nel quale l’onda di riflusso verso il centralismo provocata dalle polemiche su come le regioni, e non solo in Italia, hanno gestito l’emergenza, pare particolarmente vigorosa.Se ne riparlerà in occasione della “staffetta” e poi ancora, più intensamente, tra qualche mese, in occasione dei cinquant’anni della nuova autonomia, ma tutto, salvo clamorose sorprese resterà come è oggi.