La strage dell’estate del 1957 a Castello Tesino
I riflettori della cronaca si spensero presto sulla strage di Castello Tesino avvenuta nell’estate del 1957. Anche perché la parte giudiziaria si chiuse rapidamente con “la morte del reo”. Tuttavia, nel cimitero, sulla collina di S. Ippolito, a Castello Tesino, una lapide ricorda, con tenerezza, Giorgio Biasetto, un ragazzino di 11 anni e qualche mese. Scrissero i genitori: “L’umana follia ci ha tolto la tua bontà, nella fede ritroviamo il tuo affetto a nostro conforto”.
Il “tosato” era nato il 5 dicembre 1945. Fu tumulato, assieme ad altre tre vittime, la mattina del 9 luglio 1957, martedì. Con loro, ma con un rito a parte, fu sepolto anche l’autore della strage di due giorni prima.
Nell’osteria dell’albergo “Miramonti” (in paese lo hanno sempre chiamato “Savoia”) di proprietà del sindaco di Castello Tesino, Giovanni Pelloso, si era presentato Luciano Dallemule, un giovanotto di 26 anni, già ospite delle patrie galere per episodi legati alla sua mente malata. Era disoccupato con lavori saltuari alle spalle. Aveva chiesto, inascoltato a suo dire, un posto di lavoro al sindaco. Quella domenica mattina Luciano Dallemule aveva seguito due messe. Entrato nell’osteria cercò del sindaco; non avendolo trovato domandò una birra. Ne aveva tracannata la meta, poi si era diretto verso la cucina. Alla vista di Maria Moranduzzo, 58 anni, domestica in servizio all’albergo, con una pistola calibro 7,45 Luciano Dallemule aveva sparato il primo di una serie di proiettili. Non contento, aveva colpito, ferendola, la moglie del sindaco. Quindi era tornato sui propri passi per mirare a due dei quattro figli del sindaco Pelloso. Si era trovato di fronte Antonio Boso, di 34 anni, e lo aveva freddato. L’omicida era poi fuggito verso il bosco dove aveva incrociato il piccolo
Giorgio Biasetto il quale stava portando il pranzo a suo fratello che era andato in montagna per costruire un capitello degli alpini. Ucciso anche il “tosato”, Luciano Dallemule aveva colpito a morte Vittorio Moranduzzo di 29 anni e ferito altre due persone. Era passata poco più di un’ora dalla prima esplosione della furia omicida. Raggiunto e circondato da tre uomini (il maresciallo dei carabinieri, un agente della forestale e un amico) Luciano Dallemule usò l’ultimo colpo rimastogli contro sé stesso. Questa almeno la versione ufficiale. Si disse in quei giorni che il pluriomicida fosse stato “suicidato” da un colpo sparato da uno degli inseguitori.
La notizia della strage di Castello Tesino arrivò nelle redazioni dei giornali soltanto a tarda sera di quella sciagurata domenica di luglio. Arrivò per caso, con l’ultimo giro di “nera”, con la consueta telefonata a polizia, carabinieri e ospedali. Dal San Lorenzo di Borgo Valsugana, alla richiesta del cronista “novità”? risposero che “i morti i è morti e dei cinque feriti, tre i è ancora en prognosi riservata”. Morti? Feriti? Dove? Quando? Come?
Avute informazioni sommarie, i cronisti delle redazioni di Trento di “Adige” e “Alto Adige” chiamarono il corrispondente della zona al telefono. C’era un solo telefono pubblico a Castello Tesino. “Perché non ci hai avvertito stamattina di ciò che è accaduto”, domandarono. La risposta fu lapidaria: “Perché l’è una de quele notizie che non fa far bèla figura al paés”.
Restava poco tempo per chiudere e mandare in stampa il giornale.
L’Adige aveva inviato a Castel Tesino il giornalista Elio Conighi (1930-1986). “L’Alto Adige”, il ventitreenne Piero Agostini (1934-1992) il quale andò a parlare con la sorella del folle omicida. “Povere vittime, povero assassino”, disse Gisella Dallemule al giornalista. “Povero, disgraziato Luciano. È finito così male che nemmeno poteva immaginarlo. Ho tanta pietà per quelli che sono morti e tanto orrore per il modo in cui sono stati uccisi. È impossibile dire di più”.
La donna raccontò che il fratello era “stato disgraziato prima ancora di nascere”. Sua nonna materna, nel 1919, aveva assassinato la madre. Suo padre, Vincenzo, era stato falciato da una raffica di mitra, nel novembre del 1944, sulla strada del passo del Brocon. Negli stessi giorni della strage, un fratello era stato protagonista di un dramma familiare in Svizzera, dove era emigrato. Altro lutto nella tragedia.Nella tarda serata di quella domenica di sangue, in Valsugana, si era scatenato il diluvio che aveva provocato il franamento di un tratto di strada fra Strigno e Bieno. Nella notte le rotative dei giornali avevano sfornato una dose suppletiva di copie. Così, alle 4 di mattina del lunedì, con la “Giardinetta” carica, l’addetto alla diffusione de “L’Adige”, Marcello Voltolini (1926-2010), si era messo in viaggio per il Tesino. Arrivato in prossimità della frana, fu fermato da un drappello di militari impegnati a riparare i danni causati dal nubifragio. Buon per lui che il tenente che comandava gli alpini aveva il cognome Voltolini. Non erano parenti, ma la parlantina sciolta e la premura del Voltolini de “L’Adige” fecero più della (mancata) consanguineità. In un baleno, i militari predisposero due assi lungo la rampa franata e con cautela vi fecero transitare la vettura del giornale. Il distributore del quotidiano di Bolzano, invece, fu costretto a proseguire verso Grigno e risalire lungo l’ardita quanto difficoltosa strada della Cortella. Quando le copie dell’Alto Adige arrivarono in Tesino, l’Adige aveva ormai esaurito tutte le copie.
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