Nati (pochi), morti (troppi) e matrimoni (a picco). Il 2020 e i primi mesi del 2021 forniranno agli specialisti della demografia storica abbondante materiale. “Siamo bombardati tutti i giorni da statistiche demografiche, una scienza che trae origine dai libri degli obiti di Londra, durante una delle grandi pestilenze del XVI secolo. Si doveva tener conto del numero dei funerali per trovare un posto nei cimiteri londinesi.
Per quanto ci riguarda, e i Trentini spesso lo dimenticano, siamo tutti debitori del Concilio di Trento (1545-1563) che ha imposto l’uso sistematico dei registri parrocchiali di nati, matrimoni e morti”. Sacramenti corrispondenti in demografia ai fattori naturali di natalità, riproduzione e morte.
La prof. Casimira Grandi, veneziana, docente di storia sociale presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, è stata la prima a importare la contemporanea demografia storica nell’università degli Studi di Trento.
Poco più di un anno fa (27 dicembre 2019) se ne è andato don Livio Sparapani, primo direttore dell’Archivio diocesano Tridentino. Il quale, grazie alla sua perseveranza e alla lungimiranza dell’arcivescovo Alessandro M. Gottardi, oggi si pone come la più importante, quanto fondamentale, banca dati degli ultimi cinque secoli della popolazione trentina. Fu Livio Sparapani a piantare e coltivare l’albero della memoria demografica.
Nel 1984 al portone dell’arcivescovado di Trento bussarono i rappresentanti dei Mormoni dello Utah (in Italia gli adepti della “Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni” sono 26 mila). Domandavano l’autorizzazione a microfilmare tutti i registri parrocchiali (nati, morti e matrimoni) del XIX secolo. Servivano loro, spiegarono, per ricostruire gli alberi genealogici degli antenati. Un’anagrafe del mondo, cominciata cento anni fa.
Ebbene, i mormoni raccontarono all’arcivescovo Gottardi che, secondo il loro credo, formulato da Jospeh Smith nel 1830, tutti coloro i cui nomi fossero stati conservati nella grande caverna, a Salt Lake City avrebbero avuto il Paradiso assicurato. Pur consapevole che quella richiesta era legata alla “vendita” degli alberi genealogici, Gottardi fece finta di credere a codesta nobile spiegazione. Acconsentì alla microfilmatura di tutti i registri dei nati, dei morti e dei matrimoni dal 1800 al 1901 nelle 427 parrocchie e curazie del Trentino. Con l’intervento della Provincia autonoma di Trento, l’operazione fu successivamente ampliata a cinque secoli, pertanto tutti i 5.006 volumi manoscritti. Nel contratto stipulato con i Mormoni, la diocesi di Trento aveva chiesto una copia del microfilm di ogni pagina. L’operazione complessiva durò un paio di anni. Con il bibliobus della Provincia, don Livio Sparapani andava di canonica in canonica, prelevava i registri, li portava a Trento. Dopo l’operazione di microfilmatura i volumi erano riportati nella parrocchia d’origine. Furono elaborati 950 mila fotogrammi. “Negli ultimi anni, spiega Katia Pizzini, oggi responsabile dell’archivio diocesano, i registri parrocchiali sono stati tutti digitalizzati. In tal modo è stato possibile compilare una banca dati con i nominativi dei Nati in Trentino dal 1815 al 1923. Vale a dire, il periodo austriaco durante il quale i parroci svolgevano anche la funzione di ufficiali di Stato civile. La banca dati, realizzata assieme all’Ufficio emigrazione della Provincia autonoma di Trento, comprende un milione e 280 mila schede anagrafiche”.
Tutto questo lavoro, nel primo decennio del XXI secolo è servito a far ottenere la doppia cittadinanza ad alcune migliaia di discendenti degli emigrati dal Trentino dopo il 1867, migranti dell’impero d’Austria. Fu un’estensione legislativa del Trattato di S. Germano (1919). Archiviata la legge, che aveva validità fino al 2010, la richiesta di documentazione anagrafica è proseguita con costante intensità.
“Ogni anno abbiamo circa cinquemila persone che vengono in archivio a consultare i registri digitalizzati, a riannodare le loro radici”, racconta la dott. Pizzini.
La pandemia, con la chiusura per mesi di archivi e biblioteche, non ha modificato l’ansia della ricerca. Semmai ha reso impellente la sete di conoscenza, la ricostruzione della vita, la verifica delle cause di morte dei nonni e dei bisavoli poiché le radici si consolidano nei momenti di fragilità. La fotografia dell’albero degli antenati avvantaggia persino la genetica. Spiega la prof. Grandi che nell’ultimo incontro con don Livio Sparapani, il 16 dicembre 2019, si era accennato a una malattia rara, curata in Sicilia attraverso un recupero genealogico-genetico nei registri parrocchiali. In questo contesto potrebbe essere avviata una fruttuosa collaborazione tra l’Università di Trento e l’archivio diocesano per risalire all’origine di patologie rare legate alla consanguineità, condizione accentuata negli isolati geografici montani. Già il prof. Marcello Disertori, primario di cardiologia, una decina di anni fa aveva individuato un gruppo di circa quattrocento persone, abitanti in valle di Piné e in un comune della val di Cembra, portatrici di una malattia genetica collegata al cuore e che le esporrebbe, più di altre, a una morte improvvisa. La conoscenza favorisce la prevenzione.
Precisa la prof. Grandi: “Le indagini sulla mortalità degli antenati consentono alla medicina predittiva di determinare l’albero genetico degli individui: e questa potrebbe essere la prossima frontiera”.
In verità i registri parrocchiali consentono di risalire alle cause di morte, con discreta sistematicità, solo dal 1815. La dominazione austriaca impose anche in Trentino un formulario di registrazione che contemplava la “qualità della morte”. Sia pure con tutti i limiti posti dalla diagnostica dell’epoca poiché, di certo, c’era solo la morte “per mancanza di respiro”. Le cause di morte dovevano essere periodicamente trasmesse alle autorità civili. Tuttavia, i picchi nella mortalità rilevati pure nei secoli precedenti rimandano a ben conosciute fiammate epidemiche, segnatamente: le febbri maligne, il vaiolo, la peste dei primi decenni del XVII secolo.
Spiega Katia Pizzini che il concilio Tridentino, con un decreto dell’11 novembre 1563, impose, pena la scomunica, un registro dei matrimoni. Erano segnati i nomi degli sposi, dei genitori, dei testimoni, il giorno e luogo delle nozze. Contestualmente fu potenziata la registrazione dei battesimi. I libri dei morti “aumentarono vistosamente dal 1614 al 1700 dopo la pubblicazione del Rituale Romano (1614) di Paolo V, il quale prescriveva l’uniformità del contenuto dei libri canonici e l’obbligo dell’uso della lingua latina”.
Dopo le guerre e la dominazione napoleonica, nel 1815 il governo di Vienna introdusse il Codice civile universale austriaco che riaffidava ai curatori d’anime il compito di tenere le matricole. I preti trentini saranno ufficiali di Stato civile sino al 31 dicembre 1923.
Oltre alla banca dati della popolazione trentina, il palazzo del “Vigilianum”, a Trento, voluto dall’arcivescovo emerito Luigi Bressan (1940), conserva i documenti prodotti in mille anni dall’ordinario diocesano. Nel dettaglio: 3.215 pergamene, 1.639 registri, 973 volumi, 3.774 buste, 7.395 fascicoli di documentazione storica.
Scrive Casimira Grandi che “il sacro e il profano in questi documenti si fondono nel senso di sé che ha ognuno di noi. Lo smarrimento della territorialità, dovuto alle migrazioni, comporta per molti la sentita necessità di avere un luogo dove andare con la memoria e combattere con i ricordi lo smarrimento di tanti cittadini del mondo”.
Katia Pizzini rivela che, vedendo l’atto di nascita di un trisavolo, un giovane brasiliano di origine trentina si è messo a piangere per la commozione. Poi, ha cominciato a ballare la samba davanti agli stupefatti archivisti e ai ricercatori che in quel momento consultavano pagine e nomi della nostra storia. In quel momento, il passato tornava a vivere sul pentagramma del mondo.