Il “professore”, salito dalla città fin nel cuore della val Rendena, entrò in aula, scrutò in silenzio i ragazzi della terza media che gli stavano di fronte e cominciò a parlare. Pacato, asciutto, conciso. Non erano passati tre minuti quando, improvvisamente, come gli avesse dato di volta il cervello, puntò l’indice verso un ragazzo di colore che sedeva tra i banchi ed un suo coetaneo, biondo. “Voi due, fuori!” urlò, come l’avesse morsicato una tarantola. I due ragazzi, sconcertati e sotto choc, si alzarono lentamente, quasi inebetiti, mentre i loro compagni abbassavano lo sguardo, intimoriti e incapaci di comprendere. Nessuno di loro osò alzare la mano e domandare spiegazioni. Il silenzio si tagliava con il coltello. Mentre i due malcapitati stavano uscendo dall’aula, il “professore” venuto dalla città li richiamò: “Fermatevi. È tutto un trucco. Tornate al vostro posto”. Lo smarrimento degli studenti si fece ancor più inquieto: “O è matto, o ha bevuto” pensarono. “Vi ho fatto vivere un frammento di ciò che accadde molti anni fa, era il 1938, ad alcuni vostri coetanei dell’epoca, quando in Italia entrarono in vigore le leggi razziali. Furono cacciati da scuola per la sola “colpa” di esistere e di essere ebrei. Vi ho così fatto provare un guizzo di antisemitismo nei confronti di ragazzi italianissimi ma appunto ebrei; un assaggio delle persecuzioni contro gli zingari o gli omosessuali. Contro i diversi, insomma”.
Tutto quanto portò alla Shoah, allo sterminio di milioni di esseri umani, colpevoli di non essere biondi, alti e sani. Vittime del nazismo che praticò con ferocia l’odio e la persecuzione facendo strage di umanità. In nome della “pura razza ariana”.
Il “professore” si chiama Renzo Fracalossi, 59 anni, studi classici, funzionario della Provincia di Trento, autore e regista di teatro civile, presidente del “Club Armonia”.
È uno dei più attenti studiosi in ambito locale della questione ebraica, dell’antisemitismo che non è di oggi ma affonda le zanne fin dall’epoca greco-romana. Ha pubblicato vari libri, segnatamente: “La scuola dell’odio. Appunti sulla storia dell’antisemitismo in Europa” (2015); “E scese la notte. Due testi teatrali sulla Shoah” (2019). Da quando è stato istituito il giorno della memoria (27 gennaio 1945, la scoperta e la liberazione dei sopravvissuti nel lager polacco di Auschwitz-Birkenau) Renzo Fracalossi ha inaugurato una sua personale ricorrenza per la fine di gennaio. Ogni anno, un testo teatrale portato nelle biblioteche e nei teatri di Trento e provincia nel tentativo di seminare gli antigeni e favorire la crescita della tolleranza e del dialogo. Nei confronti di tutti.
“Ho cominciato nel 2005 con un lavoro su Simonino da Trento, il bambino annegato in una roggia nel 1475 e della cui morte furono incolpati gli ebrei. Rappresenta il primo caso di un pogromscientificamente pianificato. Nei secoli precedenti, in Europa, si erano avuti massacri ben più consistenti. Ma erano tutti sull’onda del momento: la partenza per le Crociate (sec. XI-XIII), le pestilenze. Nella vicenda del Simonino c’è un dato politico raramente messo in luce: è il primo caso in cui si palesa la piena, totale, autonomia del Principato vescovile di Trento. Il Principe vescovo Hinderbach rispose picche sia al Papa di Roma che all’Imperatore di Germania i quali gli avevano chiesto di liberare gli ebrei che invece furono condannati a morte”.
Dopo quei tragici fatti, gli ebrei lanciarono su Trento lo “hêrem”, l’anatema. Gli ebrei scomparvero dal Principato vescovile. A Riva del Garda resistette una comunità ebraica legata alla stamperia Jachob, ma lì dominava la Repubblica di Venezia. C’è, tuttavia, una pagina sconosciuta sulla presenza di persone di religione ebraica a Trento, durante il fascismo e nel corso della seconda guerra mondiale.
“Con l’avvento al potere di Hitler, una parte degli ebrei dell’Europa orientale avverte il rischio e va via. Se ne vanno Cechi, Ungheresi, polacchi, tedeschi e austriaci. Si disperdono in Stati europei più accoglienti anche se il sogno di molti era di emigrare negli Stati Uniti e Gran Bretagna. In Italia arriva qualche migliaio di ebrei. Chi non conosce la lingua italiana, trova comodo fermarsi dove si parla il tedesco: in Alto Adige e in Trentino. Tanto che la Comunità ebraica di Merano arriva a 600 iscritti (oggi ne ha circa una trentina). Dopo l’8 settembre del 1943, Merano è la prima comunità a subire la deportazione”.
Lei mette in scena, in questi giorni, la memoria di una ebrea bielorussa, Katerina Rapaport.
“È una storia incredibile. Arriva in Italia dopo la rivoluzione bolscevica, conosce un ragazzo di Vervò, Leonardo Zadra. Lei ha 8 anni più di lui. Si sposano. Poco prima dell’8 settembre il marito va a Roma. A Vervò arrivano le SS, l’arrestano, la portano a Merano e da lì con tutti gli altri correligionari viene inviata a Reichenhau, poi Auschwitz e poi fumo. Pochi giorni dopo lui torna da Roma con la divisa delle SS”.
Allucinante.
“Nel 1948 la comunità ebraica di Merano lo denuncia per aver mandato la moglie al massacro. Questa è una delle tante storie, alcune particolarmente significative. Mi soffermo meno sulla famiglia Löwy di Moena perché nota. C’è invece una vicenda, particolarmente bella, di una sopravvissuta: Khate Perlberger in Caliò. Austriaca, sposa Bernardo Caliò, un violinista siciliano. Benché molto più anziano di lei, è un matrimonio d’amore. Alla vigilia dell’Anschlüss, in Austria, fuggono a Torino. Nel 1938, con le leggi razziali in Italia, i primi colpiti sono gli ebrei stranieri. Khate viene raggiunta da una sua amica, Ewa Haas Flatter, giornalista poliglotta (parlava 9 lingue) del “Wiener Tagblatt”. Quest’ultima, assieme al figlio, è in attesa del visto per la Gran Bretagna dove si è rifugiato l’ex marito. Con le leggi razziali, la famiglia Caliò è destinata alla val Sarentino. Da lì, dopo un mese, si trasferisce a Rizzolaga di Piné. Dall’altipiano altro trasloco, a Garzano di Civezzano dove Ewa decide di abbandonare la coppia. La giornalista scende a Trento e poi ad Arco. Qui è aiutata dal podestà Carloni e dal medico, il dott. Crosina. Sola, vive appartata in una dignitosissima miseria. Denunciata, è arrestata il 21 novembre del 1943. Portata a Fossoli, poi a Bolzano, finisce ad Auschwitz. E qui va alle docce”.
Ciò che lascia sgomenti è che tutti sapevano e nessuno intervenne per fermare l’orda assassina.
“Certo, in Germania tutti sapevano, non potevano non vedere i treni che passavano e non sentire l’odore infernale di carne bruciata. Lo sapevano anche gli ebrei ma volevano, fingevano di non crederci. La persecuzione è avvenuta perché molti non ci hanno creduto”.
Perché questo suo impegno che sa quasi di missione, per far conoscere nomi, volti, luoghi dello sterminio?
“Da ragazzo, durante le vacanze estive, andavo in Germania a lavorare. Un paio di domeniche mi è capitato di entrare in un lager vicino ad Amburgo. Quelle visite mi hanno segnato per la vita. Ho cominciato a cercare di capire come si era potuti arrivare a tanto. I campi di sterminio in realtà sono pochissimi. Nell’insieme però, il sistema concentrazionario nazista contava su oltre undicimila campi”.
Quanti sono, se ci sono ancora, gli ebrei in Trentino?“Ce ne sono, ma non serve a nulla sapere né il numero né dove vivono. Perché c’è ancora paura”. L’onda lunga delle persecuzioni e la mala pianta dell’antisemitismo non hanno mai cessato di fruttificare e spargere veleno.