Ottantotto anni, laurea in biologia e, successivamente, in medicina e chirurgia; due anni di specializzazione a Pavia. Dino Pedrotti ha trascorso una vita tra le mura dell’ospedale infantile di via della Collina, a Trento, dove ha cominciato come Assistente (1961-1965), Aiuto-primario (1965-1985). Ha concluso quale Primario (1985-1997) del reparto di neonatologia da lui promosso. Andato in pensione, ha proseguito il servizio alla casa di cura S. Camillo fino al 2012, quando è stato chiuso il reparto di maternità.
“Se all’Ospedalino abbiamo salvato tanti bambini, il merito va condiviso con una trentina di infermiere che andavano a prendere i neonati con l’autolettiga della Croce Rossa nei quattordici punti nascita della provincia e, a rotta di collo, li trasferivano all’ospedalino”. Non c’erano le culle termiche. I neonati erano collocati in una valigia; aveva un’apertura per far passare il tubicino dell’ossigeno e una boule con l’acqua calda per mantenere la temperatura costante.
“In ottomila viaggi, in tutta la regione, non si è avuto mai alcun incidente”. Una grande fortuna, è il caso di aggiungere, poiché nessuna delle infermiere era assicurata contro gli infortuni. “Un impegno volontario di straordinaria umanità”. Ecco, la cifra che ha pressoché azzerato la mortalità neonatale in provincia di Trento: sapere scientifico ma soprattutto coinvolgimento emotivo. “Ognuno di quei frugoletti era come fosse nostro figlio. Non era un arido numero per la statistica”.
Quando il dott. Pedrotti cominciò l’attività di pediatra, all’ospedale infantile moriva un neonato alla settimana. Al cimitero di Trento, nello spazio dedicato ai bambini, si aprivano sessanta tombe all’anno. “Lo consideravamo un nostro reparto”, ricorda. Nel 1964 fu avviato il “centro immaturi. La neonatologia era agli albori. L’anno prima, Jacqueline Bouvier, moglie del presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, aveva perso un figlio nato prematuramente. Quell’episodio fece scalpore, tanto che cominciò a diffondersi una nuova cultura sanitaria nei confronti dei neonati. “A quel tempo parlare di bambini intubati e ventilati pareva un’assurdità”, racconta Pedrotti.
Sulla collina di Trento c’era ancora il reparto dei bambini colpiti dalla poliomielite (la vaccinazione di massa cominciò nel 1964) e dei bambini affetti da TBC (negli anni Trenta erano stati riservati loro ben 80 posti letto). Numerosi bambini ricoverati (la degenza media era di tre settimane) erano aggrediti da infezioni gastriche. Molti morivano per la dissenteria.
La svolta si ebbe negli anni Settanta quando Pedrotti attuò e impose al personale alcune misure di profilassi, le medesime riproposte in questi mesi per contrastare la pandemia di Covid: lavarsi frequentemente le mani e l’uso costante delle mascherine. Inoltre, i piccoli erano alimentati pressoché esclusivamente con latte in polvere. La distanza dal Santa Chiara impediva, infatti, alle neomamme di allattare direttamente i loro figli ricoverati sulla collina.
Individuato il problema, Pedrotti avviò la “banca del latte materno”. Non contento, requisì due stanze destinate alle infermiere e fece predisporre quattro letti per le mamme disponibili all’allattamento. Fino al 1982 era proibito l’ingresso dei genitori all’ospedalino. Fatte salve le ore di visita, due volte la settimana. Quell’anno, presentata dall’assessore provinciale Antonio a Beccara, entrò in vigore la legge che consentiva alle mamme di accudire personalmente i loro figli in ospedale. Si rompeva un tabù che durava da oltre sessant’anni. Fin dalla fondazione della struttura. L’ospedale infantile di Trento “principessa Maria di Savoia” fu inaugurato, infatti, il 7 dicembre 1920. Giusto un secolo fa. Nel 1967, dopo lavori di ristrutturazione che l’ampliarono a 250 posti letto fu denominato degli “Angeli custodi”. Il 15 giugno 1991 l’attività sanitaria fu trasferita all’interno degli Istituti ospedalieri di Largo medaglie d’oro. Fu un trasloco sofferto e per il quale si era battuto contro tutto e contro tutti i colleghi proprio il dott. Pedrotti: “Ostetricia era al S. Chiara, quando c’era un problema si doveva partire dall’ospedalino, si impiegava mezz’ora e spesso si arrivava tardi. Medesimo problema per i neonati che avevano bisogno di cure e che dovevano essere trasferiti in collina. Certo, rispetto al S. Chiara eravamo una sorta di Repubblica autonoma ma il bambino veniva prima di tutto”.
All’Ospedalino, la degenza media era di tre settimane. I lungodegenti potevano frequentare le elementari. Infatti, c’erano tre insegnanti a loro completa disposizione. “Erano presenti due maestre in due aule del Preventorio (dove erano ricoverati i piccoli con la TBC) e una maestra nelle corsie. C’era pure un’insegnante di scuola materna”. Alla fine degli anni Sessanta i medici erano una ventina. L’organizzazione dell’Ospedalino era in mano a una decina di suore di Maria Bambina. Nel tardo pomeriggio, in visita ai bambini arrivava un prete straordinario, Tullio Endrizzi (1919-1989). Con giochi di prestigio e racconti mimati riusciva a strappare un sorriso anche ai più sofferenti.
Dei diecimila bambini che furono degenti negli ultimi trent’anni dell’ospedalino, Dino Pedrotti conserva fotografie, testimonianze, affetti. A Natale riceve ancora numerosi messaggi di augurio. C’è chi rammenta quei giorni, chi racconta ciò che è diventato.
“C’era una neomamma che abitava a Prato allo Stelvio. Ogni due giorni mandava a Trento il proprio latte per sua figlia che era ricoverata all’Infantile. Quella bambina è cresciuta e oggi fa l’infermiera nell’ospedale di Silandro”.
Un’altra testimonianza lo ha colpito e commosso. “È forse la più emozionante: mi ha scritto una giovane laureata in medicina. ‘Ho scelto questa professione, mi fa sapere, perché volevo restituire ciò che ho avuto venticinque anni fa’. Si è iscritta a pediatria, a Torino. Per la prima volta, dice, ha tenuto un prematuro tra le mani”.
Ecco, quando è nata questa giovane dottoressa pesava 480 grammi.
Dino Pedrotti conserva una collezione delle “miss 500 grammi”, di quelle neonate di 23-25 settimane, sopravvissute e oggi ormai persone mature. “Sono soprattutto le femmine che avevano e hanno maggiori probabilità di farcela”.
L’adozione delle culle termine, la rianimazione pediatrica, le vaccinazioni a tutto campo hanno quasi azzerato la mortalità infantile. Ribadisce il pediatra Dino Pedrotti: “L’assenza di mortalità infantile è il miglior indicatore del livello di civiltà di un popolo”.
Lo sviluppo della neonatologia, di un reparto dedicato, senza suora caposala, ma “con una straordinaria Ester Girardelli” ha fatto della “nipiologia” (Nipios, in greco, è il lattante) una delle perle della sanità trentina. Se, per l’Azienda sanitaria la terapia intensiva neonatale va fatta in modo tecnico, per il dott. Pedrotti “deve essere valorizzato soprattutto l’aspetto umano di pari passo con il sapere medico”.
“Un bambino di mezzo chilo di peso è l’assoluto della debolezza”. In sessant’anni di professione Dino Pedrotti si è guadagnato sul campo la definizione di “sindacalista dei bambini”. Intanto, fra qualche giorno, sapremo esattamente quanti sono i bambini nati in questo anno funesto. In attesa di un vaccino contro il Covid si attende una terapia per contrastare la denatalità. Si chiama “fiducia” che può essere innescata solo da una buona politica. Di questi tempi scarseggia l’una, quanto alla seconda fate un po’ voi.
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