La storia, nel suo incedere, è segnata dal rapporto fra cultura e potere. Si tratta di un dialogo che si regge sul carattere della prima, racchiuso nell’idea stessa di “dissenso” e sulle esigenze vitali del secondo, che poggiano sulla necessità del “consenso”.
In un contesto di libertà, la cultura riveste infatti il ruolo fondamentale di stimolo, controllo e critica, essenziali al procedere della democrazia e da qui discende quel suo carattere di “dissenso” che la rende così preziosa ed indispensabile. Nei regimi dittatoriali ed in certe rabberciate forme di “democrazia” autoritaria – le cosiddette “democrature”, che più d’altre forme di governo necessitano di un acritico consenso e rifiutano quindi ogni difformità di pensiero – la cultura invece viene posta, fin da subito, davanti ad una scelta dirimente: adeguarsi oppure opporsi al potere autoritario. Dentro questo dilemma la cultura muore, trasformandosi in piaggeria inutile o in propaganda. Più raramente in resistenza.
Nel XX secolo, abbiamo assistito ad una accentuazione costante dell’incontro/scontro fra potere e cultura, laddove quest’ultima ha spesso smarrito parte delle sue funzioni di elaborazione critica, per acquisire invece velocità e meccanica, perdendo cioè in filosofia ciò che ha guadagnato in tecnica. Sembra una contraddizione, ma è invece la fotografia della realtà culturale del nostro tempo.
Alla fatica della costruzione dialettica si è venuta via via sostituendo quella rapidità informatica che sta adesso sfuggendo ad ogni controllo, attraverso la crescente “indipendenza” dell’algoritmo, che “ragiona” sempre più autonomamente ed incide sulla realtà, anche a prescindere da volontà che non siano la sua. Il “secolo breve”, con il quale siamo giunti a questo paradosso tecnologico, ha destinato alla cultura un ruolo assolutamente diverso da quello ricoperto nel passato, soprattutto nei contesti dei grandi regimi dittatoriali. Non più luogo della riflessione e del confronto ideale, bensì strumento deprivato della sua componente critica e costretto dentro il recinto dell’ideologia, nel quale la cultura è chiamata solo ad una mera funzione di narratrice su commissione del mito, quale fondamento del consenso indispensabile. Chi non si adegua a tale modello si trova a fronteggiare, nel migliore dei casi, l’ostracismo e, nel peggiore, la persecuzione.
Forse il caso più eclatante è quello dello stalinismo.
La cultura sovietica forgia infatti il “culto della personalità”, identificando nel dittatore i profili di una dimensione messianica ed universalistica. Stalin è la ragione, la verità e la storia incarnate ed è in lui che, nel momento del bisogno bellico, si racchiude quel patriottismo totalizzante che sovrappone il dittatore alla “santa madre Russia”. In questo processo di identificazione collettiva e assoluta nel leader, il compito della cultura, ormai privata di ogni altra funzione, è quello dell’annunciazione del prodigio e della conferma di una “essenza sovrannaturale” del capo. Non si tratta di passione o di convinzione, bensì dell’unica alternativa possibile, nel terrore delle “purghe”, al “Gulag” o al plotone d’esecuzione.
Anche nel nazismo il rapporto fra cultura e potere è solo funzionale.
Superata l’iniziale fase rivoluzionaria di vaga ispirazione socialisteggiante e dove si disprezza la cultura come espressione delle classi dominanti, Hitler comprende l’urgenza di una mitologia identitaria e di una narrazione di massa della stessa, capace di giustificare l’imperativo della superiorità razziale, sul quale egli fonda l’ideologia del regime. La fonte alla quale attingere è quella del “mythos” wagneriano, ariano e nibelungico, attraverso il quale la cultura di regime può plasmare il nuovo “Volk” e prepararlo alla “missione storica” del popolo germanico chiamato a guidare il mondo. In quest’ambito si fanno largo scienze come l’eugenetica, destinate a dare sostegno scientifico e razionale, non solo alla superiorità razziale ariana, ma perfino alla “soluzione finale” dell’olocausto, che individua nell’alterità il nemico della purezza razziale, che va quindi eliminato fisicamente dalla storia dei popoli. Nella cultura nazista tutto converge, grazie proprio al “mythos” ariano, verso un focus unico ed imprescindibile: quello della “legge del sangue”. Con essa si afferma il dovere di ritornare alle leggi fondamentali della natura e, prima fra tutte, appunto quella del sangue che impone la preservazione della razza attraverso la procreazione, la salute e la conservazione del “sangue tedesco”, liberandolo da ogni contaminazione. Il compito della cultura è pertanto quello di rendere la pura razza ariana consapevole di sé ed in grado di opporsi ai nemici, di affermare la propria egemonia e di dominare quindi il mondo. Per chi si oppone rimane il lager.
Il fascismo invece pare accontentarsi di molto meno.
Dopo gli avvii incerti del movimento, che oscilla fra opposte spinte, il fascismo delega al “mussolinismo” la costruzione del proprio mito. Usando i neologismi enfatici del dannunzianesimo, viene così ad elaborazione un improbabile mito della romanità belluina, farcito di qualche spruzzata di futurismo, destinata a dar seguito alla “missione civilizzatrice” della Roma imperiale. Grandi liturgie di massa, promosse dal regime, chiamano il ceto intellettuale italiano ad un puro ruolo di comparsa, destinata all’assenso silente ed acritico. D’altronde, quella di adeguarsi è una storicizzata tradizione italica, al punto che lo stesso Dante sottolinea: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui e com’è duro calle lo scender e ‘l salir per l’altrui scale” (Divina Commedia – Paradiso – Canto XVII, vv. 58, 59), a testimonianza di come, nella travagliata vicenda peninsulare, la cultura sembra sempre costretta, per sopravvivere, a “ripararsi” all’ombra del potere, rinunciando a quote di libertà in cambio di qualche forma di libertà. Altro esempio è quello dell’abiura imposta a Galileo. Qui la cultura, rappresentata dallo scienziato, viene sconfitta dall’ottusa sopraffazione inquisitoriale, che testimonia l’incomunicabilità che segna, per secoli, il rapporto fra sapere e potere.
Certo, nelle dittature si elabora pensiero, purché sia addomesticato e funzionale come esemplifica la filosofia di Giovanni Gentile o la rivista “Critica fascista” di Giuseppe Bottai, nella quale fermentano le giovani esperienze culturali di de Pisis e Guttuso. Ma questo è un modo debole di fare cultura, perché privo della sua naturale dimensione critica e legato più all’immagine che alla sostanza del “dissenso”. Il duce tollera, malamente, Benedetto Croce, ma è un caso isolato e legato alla forte dimensione internazionale del filosofo, anziché ad un riconoscimento del suo libero pensare. Mussolini è concentrato sull’apparire, anziché sull’essere e per lui la cultura deve sostenere il regime ed esaltare quel “dux” che tutto può e tutto fa. È una sorta di “superomismo all’amatriciana”, quello del fascismo, dentro il quale si annega ogni connotazione filosofica e tutto si riduce all’esaltazione assoluta del capo, con frequenti cadute nel ridicolo. Mentre Hitler si affida alla modernità della cinematografia di Leni Riefensthal, che inneggia alla forza ed alla perfezione fisica e morale del prototipo razziale tedesco e Stalin premia la poetica patriottica ed elegiaca di Il’ja Gregorevic Erenburg e con la quale chiama a raccolta il grande paese, Mussolini concentra ogni sforzo sull’esaltazione propagandistica di sé stesso, mettendo in ombra la cultura anche di regime. Si affida così alle farse di Starace, ai romanzetti di Pitigrilli, alle signorine “grandi firme”, ai “fez” e ai “federali”, ai sabati ginnici ed a quant’altro fa coreografia ad un sistema di cartone. Certo, Pirandello e Marconi si allineano al regime che li copre di onori e li nomina “Accademici d’Italia”, purché “non disturbino”. Toscanini e Fermi invece scelgono l’esilio, come già ha fatto, “rara avis”, qualche intellettuale dello spessore dei fratelli Rosselli. Chi rimane dimostra, in vari gradi e secondo diverse declinazioni, di adeguarsi pedissequamente, ma anche di essere sempre pronto a cambiar casacca con il mutare del vento, come nel caso di uno scrittore di pregio come Curzio Malaparte. Per gli altri, coloro che non si adeguano, rimane sempre il “santo manganello”.
L’avvento, nel terzo millennio, delle nuove tecnologie comunicative cambia il rapporto fra cultura e potere.
L’intellettuale non è più chiamato a certificare la “verità” del potere, né a fornire alla stessa supporto acritico o nuovi miti. La sua funzione appare “superata” e sostituita dall’avvento delle “verità di comodo”, costruite a tavolino dalle nuove tecniche della comunicazione di massa. Non più l’impegno culturale per supportare – o più raramente combattere – il potere, bensì l’avvento dello slogan e della menzogna ripetuta e declamata, anche da pulpiti autorevoli, nel nome di un populismo semplicistico e secondo il quale chi conquista la maggioranza, a prescindere dalle percentuali dei votanti, è, non solo autorizzato a governare senza alcun intralcio e controllo, ma diventa esso stesso il popolo, lo rappresenta e ne assorbe tutti i caratteri e i profili. Apparentemente cioè governo e governato diventano un “unicum” totemico, nel nome del quale sembra che tutto sia permesso e possibile. Bugie, contraddizioni, incoerenze e quant’altro vengono quindi giustificate e sostenute da quei segmenti di sapere che si schierano con il potere, “a prescindere”, sempre e comunque e qualunque esso sia. Il falso spacciato per vero costituisce così il bagaglio delle reti “social”, che possono dar corso a quella “cultura della manipolazione”, idonea ad alimentare le retoriche improvvisate delle nuove e spregiudicate plutocrazie tecno-oligarchiche. Quest’ultime appaiono oggi attente solo alla lievitazione dei propri capitali ed attratte, in assenza di ogni idealità e morale, dal potere per il potere, in una sorta di delirio di onnipotenza, reso più acuto anche dalla possibilità algoritmiche di prevedere ed orientare il domani collettivo.
In questo scenario, la cultura insomma – per come la conosciamo in senso antropologico, cioè come il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico, in relazione alle fasi del processo evolutivo – sembra diventare “inutile”. Al suo posto bastano i navigatori digitali, spesso privi di qualsiasi substrato ideologico, formativo ed etico, attenti solo all’accumulo del proprio capitale.In questo presente immanente e culturalmente sempre più povero, conta solo ciò che si dice e per il tempo che lo si dice, senza rilevanza sul suo fondamento di verità. Così, il futuro si rimpicciolisce, riducendosi al solo scorrere delle date sul calendario.
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