Spesso la stagione dei Comuni italiani in epoca medioevale viene indicata – e in parte con ragione – come uno dei momenti più fecondi nella storia della penisola e come una fase segnata da grandi fermenti culturali. È questo il periodo di Dante, di Guido Cavalcanti, di Petrarca e Boccaccio e della nascita della nostra letteratura, ma è anche un arco temporale che gronda sangue e terrore. La lotta senza quartiere fra “guelfi” filo-papalini e “ghibellini” filo-imperiali è la principale e più nota faida di Comune e rappresenta la “summa” di una violenza collettiva poggiata, non tanto su di una razionalità politica, quanto piuttosto su vendette private e rivalità familiari e di clan, che riempiono comunque di paura e di morte città e territori lungo tutto lo Stivale.
Le signorie feudali che dominano le “città-Stato” italiane non sono basate su vincoli feudali e su sacre unzioni, come avviene invece nei secoli successivi con le monarchie assolute, bensì su di una articolata gamma di fattori: il denaro, come nel caso dei de’Medici di Firenze; la perizia militare, come per i Gonzaga a Mantova e i Montefeltro a Urbino; alcuni antichi privilegi, come nel caso degli Scaligeri a Verona, dei Visconti a Milano e degli Estensi a Ferrara. Questi signori sono consapevoli della fragilità e della relatività del loro potere; sanno benissimo di essere circondati di nemici, anche dentro le mura domestiche e vivono nella convinzione che il loro potere debba essere strettamente correlato al terrore che sanno esercitare ed alla paura che da esso promana.
Fra tutti costoro, forse è la famiglia dei de’ Medici che spicca per un uso abbastanza moderato della violenza, sostituita nella maggior parte dei casi dalla corruzione e dal mecenatismo, nella consapevolezza che “pecunia non olet”. Sotto quel motto latino si sviluppa la politica di Lorenzo de’ Medici – detto “il Magnifico” per la sua ricchezza, la sua arte di governo e la sua munificenza – al quale un suo collaboratore, anche se temporaneamente caduto in disgrazia, dedica un volumetto che entrerà nella storia. “De Principatibus”, ovvero “Il Principe”, è un trattatello redatto dal Segretario della seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina, Niccolò Macchiavelli, e, nonostante sia dedicato a Lorenzo “il Magnifico”, è stato ispirato al suo autore da un altro signore dell’epoca e cioè Cesare Borgia – il “Valentino” – di origini spagnole e figlio illegittimo del papa Alessandro VI, al secolo Rodolfo Borgia. In quelle pagine Macchiavelli disegna l’idea di uno Stato italiano forte ed unitario e, per raggiungere tale obiettivo, non disdegna alcun mezzo a partire da un esercizio diffuso e indiscriminato della violenza e del terrorismo di Stato.
L’obiettivo deve essere quello di conservare ed accrescere il potere, senza alcun riguardo per gli strumenti usati, con una netta predilezione per quelli più violenti e drastici. Macchiavelli giustifica tanta spregiudicatezza nell’esercizio del potere, arrivando a sostenere la necessità del Principe, per mantenersi saldo al comando, di: “Spegnere quelli che possano o debbano offendere.” In altre parole, egli giustifica la repressione violenta del dissenso, proponendo anche di anticipare, laddove possibile, l’azione degli avversari. E’ la teorizzazione di quel terrorismo di Stato che, da sempre, contraddistingue l’agire delle dittature e degli autoritarismi: prevenire e reprimere con ogni strumento, prima che qualcosa possa intaccare la tenuta del potere. Ma il Borgia osannato da Macchiavelli non è un caso isolato nel contesto medioevale e rinascimentale italiano ed europeo.
A Milano i Visconti spargono il terrore attraverso la “Quaresima” ideata da Galeazzo II e con la quale gli avversari arrestati debbono subire, per quaranta giorni, le più efferate torture e mutilazioni, prima del supplizio finale. Lo “spettacolo pubblico” delle sofferenze dei malcapitati ha una funzione comunicativa essenziale nella formazione del terrore, ovvero quella di monito e di esempio.
Ovviamente, il terrore come strumento del potere non è prerogativa dell’età dei Comuni e delle Signorie italiane. Luigi XI di Francia costruisce l’unità nazionale del suo regno e del suo governo, stroncando la potenza dei feudatari a prezzo di inaudite crudeltà. Consapevole dell’effetto propagandistico del terrorismo, il monarca diffonde gli esiti dell’esercizio della violenza ovunque: fra le alte gerarchie nobiliari, come fra il popolo minuto e sul campanile della città di Reims, che si è ribellata contro il re, viene appesa una scultura, voluta da sua maestà e raffigurante alcuni ribelli impiccati, quale visiva memoria del terrore e della punizione regia. La medesima capacità propagandistica la esibisce anche Lorenzo “il Magnifico” dopo aver sventato la congiura dei Pazzi che è costata la vita di suo fratello Giuliano. Il signore di Firenze commissiona infatti a Sandro Botticelli un affresco per le pareti esterne del palazzo della Signoria. Il soggetto del dipinto sono i congiurati giustiziati in città: un monito ed una deterrenza inequivocabili.
Anche localmente, il terrorismo dà segno di sé, in quegli anni. Nel Tirolo, fra il 1525 e il 1526, i contadini e i minatori, sotto la guida dello scrivano minerario Michael Gaismayr e del suo vice il trentino Francesco Cleser, si ribellano al potere vescovile dominante nel Tirolo meridionale. Un peso fiscale esorbitante e un autoritarismo invasivo e pesante sono gli elementi scatenanti della rivolta che, in breve, coniuga questi problemi locali con il più vasto moto della Riforma protestante in corso. La ribellione divampa anche in Trentino ed obbliga il principe-vescovo Bernardo da Cles a fuggire a Riva del Garda. Dopo alterne vicende, le forze della reazione, agli ordini dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo, sconfiggono l’esercito dei contadini, costringendo Gaismayr a fuggire a Venezia e scatenando il terrore di una repressione feroce e drammatica e secondo la prassi del terrorismo di Stato.
Ma forse il più evidente esempio di questa forma di terrorismo è quello rappresentato dal fanatismo religioso inquisitoriale nella Spagna alla fine del XV secolo. Nel 1478 infatti, i sovrani Isabella e Ferdinando invocano l’istituzione del Tribunale della Santa Inquisizione, con lo scopo ufficiale di combattere le eresie, anche se, in realtà, l’obiettivo vero sono i “conversos”, cioè quegli ebrei convertiti forzatamente al cristianesimo, al fine di evitare l’espulsione dal regno. Costoro incarnano, per la giovane monarchia iberica, un pericolo rappresentato dalla loro potenziale influenza politica e sociale, ma anche dalla loro coesione di gruppo e da vaste ricchezze che favoriscono la penetrazione dei “conversos” nei gangli del potere e del regno.
I re spagnoli avvertono l’incombere di questa minaccia, spesso più immaginaria che effettiva ed agiscono di conseguenza. Dietro alla loro volontà si coagula poi un mondo di interessi e di gruppi di potere avversi che diffondono rapidamente l’insinuazione di criptogiudaismo, ovvero di occulta fedeltà alla vecchia religione ebraica nonostante la conversione al cristianesimo. La leggenda dei “marranos” – altro epiteto che distingue questo gruppo sociale – e delle loro supposte mire di potere si diffonde con una facilità resa ancor più tale dall’ignoranza di massa, da comode superstizioni e da interessi economico-finanziari di vaste proporzioni.
Si scatena così un terrorismo di Stato, affidato alla figura del Grande Inquisitore fray Tomàs de Torquemada. In realtà, egli è uno strumento della politica regia che mira a fare del trono il pilastro portante dell’ortodossia religiosa. Oltre ad essere un giurista colto ed intelligente ed un integralista convinto, il grande Inquisitore è mosso da un profondo e radicato antigiudaismo che lo spinge ad un largo uso del terrore, rappresentato dagli “autodafé”, cioè cerimonie pubbliche nelle quali viene eseguita la penitenza o la condanna comminata dal Tribunale dell’Inquisizione.
Dopo la frattura luterana, il terrorismo transita dalla dimensione statale laica a quella religiosa, contribuendo a rafforzare l’assolutismo delle monarchie emerse, con la fine dell’evo medio, un po’ ovunque in Europa.
La tragica “notte di San Bartolomeo” (Parigi 23–24 agosto 1572), nella quale i cattolici francesi fanno strage dei protestanti ugonotti, costituisce il punto di arrivo del terrorismo a sfondo religioso nel vecchio continente e, non a caso forse, trova la sua massima responsabile in quella Caterina de’ Medici, regina madre di Francia e figlia di Lorenzo “il Magnifico”, che ben ha conosciuto effetti ed esiti del terrorismo di Stato nella sua Firenze.
Con quella orribile strage inizia il declino di un’epoca, con le sue modalità terroristiche, anche se il lugubre rintocco della campana che segna l’avvio del massacro riecheggia fino alla Rivoluzione francese e allo scatenarsi di un’altra e diversa stagione del terrore.
(3-continua)